La testimonianza di Gianni Araldi

Così si viveva e si moriva nel campo

Quando mi si chiede di parlare di questa terribile esperienza mi sento molto a disagio perché so di turbare gli animi degli ascoltatori con il rammarico di tanta atrocità e mi dispiace. Però è mio dovere: mi sembra di fare così la volontà di tutti gli amici morti là al Dora perché non siano morti invano ma al contrario il loro sacrificio serva a renderci migliori, sia come persone sia come società. Sono l'unico cittadino di Salsomaggiore ad essere stato internato al campo Dora. Come superstite a nome di tutti i superstiti di Dora qui presenti ringrazio e do il benvenuto alle autorità e a tutti i partecipanti a questo primo convegno storico sul campo Dora.
Noi ex militari facevamo parte dei 600.000 prigionieri di guerra internati in Germania e di quel migliaio internati al Dora. Il campo Dora è stato l'unico campo di sterminio ad internare prigionieri di guerra e soltanto prigionieri di guerra italiani. Il nostro ostinato no ad arruolarci nelle SS, per venire a combattere in Italia contro i nostri fratelli, ci ha portati al Dora. I comandanti delle SS, consapevoli di violare tutte le condizioni internazionali sulla tutela dei prigionieri di guerra, per evitare ogni controllo decisero di sostituirci la vera matricola di prigionieri di guerra con una fasulla che iniziava con uno zero: la mia matricola era 0233. Da quell'istante eravamo considerati tutti dispersi e non ci è mai stato concesso di dare notizie ai nostri familiari.
Nei primi mesi del nostro internamento il campo Dora non esisteva; mancava di tutto, perfino l'acqua. Baracche e rudimentali servizi furono costruiti da noi prigionieri. La mortalità era spaventosa e in tutti i campi di lavoro ogni giorno vi erano decine e decine di cadaveri scheletriti ammucchiati alla rinfusa.
Per dare riprova concreta di questa mortalità ritengo opportuno leggervi qualche matricola e i cartellini originali del blocco 18, baracca dei militari italiani unici esistenti. I cartellini di cui vi parlo erano compilati dal capo blocco Mario Malì di nazionalità cecoslovacca e di madre italiana. Li aveva compilati per i deceduti al campo e io a rischio della mia vita sono riuscito a raccoglierli per tutto il periodo di detenzione e riportarli in Italia. Ora leggo qualche matricola dei deceduti per farvi capire che tra una matricola e l'altra restava pochissimo spazio per i vivi. Partiamo - non so - dal 0166; 0167, 69, 71, 75, 77; passiamo più avanti: 185, 86, 87, 91, 93, 94, 95, 96, 98, 99, 200, 201, 2, 4, 5, 6, 7, 9, 11, 12, 16. Questa era la mortalità dei militari italiani nel campo Dora: vedete che tra una matricola e l'altra ci sono ben pochi viventi.
Al nostro arrivo al campo i detenuti già presenti erano scheletri viventi. Posso confermare con tranquillità che in quel periodo da Buchenwald venivano trasferiti ogni mese dai 2.500 fino anche alle 3.000 unità lavorative per rimpiazzare i morti. Il Dora era un inferno per i deportati di Buchenwald ed ancor peggio era per noi militari che eravamo i più tartassati. Per i militi delle SS eravamo traditori e soldati di Badoglio, perciò botte a non finire; per i deportati politici eravamo soldati di Mussolini, così erano altri maltrattamenti, e spesse volte eravamo privati anche dei nostri averi. Per noi militari non vi fu mai un minimo trattamento di riguardo, tranne che per i 7 militari condannati alla fucilazione per sabotaggio al posto dell'impiccagione come era di norma; quello è stato l'unico trattamento "di riguardo".

Al Dora le guardie gareggiavano fra loro per inventare nuovi sistemi criminosi. Una volta in particolare fu dato un ordine improvviso di adunata del nostro comando di lavoro. Queste adunate erano sempre molto preoccupanti; tutti andavano di corsa per non restare mai ultimi, perché per gli ultimi vi erano sempre nerbate. Appena inquadrati alla perfezione si presentò un ufficiale delle SS; scambiò qualche parola con il Kapò poi entrò nel gruppo. Scelse un deportato a caso e lo portò vicino ad un mezzo meccanico. Al comando di guida vi era un deportato politico; affianco il boia con il cappuccio nero ed un pezzo di corda in mano col cappio già preparato. Questi legò le mani dietro la schiena allo sventurato, infilò il cappio al collo, legò l'altro capo al braccio della gru e il manovratore lo dovette sollevare lentamente fino all'altezza di cinque - sei metri. Quel corpo rimase penzoloni per 24 ore come avvertimento che al Dora non si scherzava. Quella era la fine di coloro che venivano sorpresi inoperosi.
Il campo Dora mancava di tutto, perciò scavarono un lungo fossato con al centro una passerella ed una trave sistemata all'altezza per potersene servire per i propri bisogni. Un giorno mentre un deportato versò tutto su quella trave, approfittando di qualche minuto in più per riposare, un sorvegliante di SS lo scoprì gli diede uno spintone e lo gettò nel fossato. Potete immaginare voi in che condizione ne uscì.
Un altro episodio che non potrò mai dimenticare è stata la prima doccia. Era pieno inverno, c'era la neve per terra. Arrivati alla baracca docce ci fecero spogliare nudi all'aperto e dopo circa mezz'ora ci fecero entrare. Eravamo impacchettati come sardine e iniziò una doccia ristoratrice con acqua a temperatura giusta. Il divertimento delle SS iniziò quando cominciò l'acqua fredda: sembravano manciate di spilli che si conficcavano nel nostro corpo. Poi acqua bollente che ci arrossava come gamberi fritti e così finché stanchi del divertimento l'ultima spruzzata bollente e poi fuori dalla baracca e di corsa nudi e scalzi sulla neve per circa 100 metri per arrivare giù. Per tutta la notte fu un concerto di battito di denti, starnuti, colpi di tosse che portarono a diverse malattie. Io fui colpito da pleurite bilaterale secca con sospetto Tbc.
A questo punto bisogna parlare del Revier che poi era l'infermeria del campo. Il Revier sempre nel periodo peggiore del Dora, era l'anticamera del forno crematorio. Vi erano ammalati che vi entravano volontariamente per dar termine a queste sofferenze, mentre altri lottavano fino all'ultimo, fino a morire sul lavoro o al block. Io facevo parte di questi ultimi; non volevo arrendermi e con l'aiuto del capoblock mi salvai. Sul capoblock Mario Malì ci sarebbe da spendere un fiume di parole. Mario non è stato soltanto il nostro capoblock, ma un vero fratello maggiore che con la sua esperienza maturata nei campi di sterminio ci salvò. Senza la sua umanità pochissimi di noi sarebbero sopravvissuti.

Quando arrivai all'estremo della mia malattia Mario mi convinse di farmi ricoverare dicendomi che mi avrebbe affidato ad un suo amico connazionale deportato politico e medico che prestava servizio al Revier. Sono stato subito visitato da questo medico; la diagnosi era, come ho detto, pleurite bilaterale secca con sospetto Tbc. Il medico si rivolse a Mario e disse: «è molto grave, e noi non abbiamo nemmeno una pastiglia da somministrargli. Se il suo fisico reagirà con un buon riposo e qualche mestolo di zuppa in più ce la può fare; tutto dipende dalla forza morale del tuo amico». Io avevo capito perfettamente in che condizioni mi trovavo perché il colloquio fra loro è stato tutto in italiano. Ero molto amico di Mario e presto sono diventato amico anche del medico. Gli avevo anche regalato un orologio del Genio ferrovieri che da tanto tempo tenevo nascosto nella borraccia: avevo rotto la borraccia, messo dentro l'orologio e poi cucito la fodera.
Questo mio amico medico mi risparmiò diversi esperimenti sulla mia malattia e un giorno vedendomi un po' ristabilito mi fece una confessione: «Caro Gianni come saprai nessuno potrà mai uscire da questo inferno, specialmente noi medici che prestiamo servizio al Revier, tutti quelli che fanno servizio ai forni crematori e tanti altri, perché una volta liberati saremmo testimoni troppo scomodi per le SS. Se tu avrai la fortuna di uscire dal Revier e di tornare a casa dovrai testimoniare su tutti i crimini che sono stati commessi in queste maledette baracche». Quando fui in grado di reggermi in piedi, il medico cominciò a farmi visitare di nascosto i reparti di altri ammalati di polmonite. Questi ammalati venivano fatti sdraiare su un tavolo sopra a due coperte inzuppate di acqua gelida ricoperti di altri due panni sempre gocciolanti di acqua gelida e sopra ancora due o tre coperte asciutte e ben rimboccate. Veniva controllata la temperatura e la resistenza di questi individui a questi trattamenti. In un angolo poi vi era una vasca con a fianco un compressore: l'ammalato veniva immerso in questa vasca e l'acqua fatta gelare; veniva cronometrato il tempo di resistenza in queste condizioni (di questo esperimento non sono stato però testimone diretto, ma mi fu spiegato dall'amico medico). Nel reparto diabetici c'erano scheletri viventi con le gambe talmente gonfie e lucide che sembravano verniciate.
Qui ai soggetti sottoposti agli esperimenti venivano praticate delle incisioni e iniettato del siero che in breve tempo procurava la morte per cancrena e dolori terribili. Il reparto di dissenteria era peggio di un porcile: feci da ogni parte, nei pavimenti, nelle pareti; liquido che scorreva giù per le gambe di questi malati... Erano tutti senza calzoni e qualcuno si copriva con qualche straccio. Gli inservienti del Revier erano sempre deportati e due volte al giorno avevano l'obbligo di lavare i locali e gli ammalati con getti d'acqua con idranti. Quando erano soli usavano modi garbati, mentre alla presenza delle SS dovevano dare tutta la pressione dell'acqua in modo che questo getto potente contro corpi così indeboliti li faceva traballare come rami al vento e gli ammalati si ammucchiavano tutti in un angolo uno sopra l'altro.

In un altro reparto vi erano corpi mutilati, veri tronchi umani: a chi mancavano le gambe o le braccia o tutti gli arti e fasciature di rotoli di carta inzuppate di sangue che emanavano odori nauseanti. A fianco c'era la sala operatoria: nemmeno l'amico medico poté entrare. So, ma solo per sentito dire dai convalescenti, che questi interventi venivano praticati senza anestesia. Dopo qualche giorno l'amico medico mi dimise dal Revier consegnandomi al capoblock pregandolo di adibirmi alla pulizia baracche altrimenti al lavoro avrei fatto la fine del povero carabiniere Ernesto Negrioli, matricola 0471, che in tre giorni fu massacrato di botte perché sfinito non poteva rendere sul lavoro. La sua fine fu il forno crematorio con il numero di matricola scritto sulla fronte con una matita copiativa. Dopo tre giorni dalle mie dimissioni, dal Revier 1.200 malati dovettero essere trasferiti "in un campo di riposo" perché persone inoperose che al Dora non potevano restare. Tutti partirono contenti per il "campo di riposo": li vestirono con divise pulite e assicurarono loro che non avrebbero più lavorato aggiungendo che la razione viveri sarebbe stata più scarsa ma sufficiente per vivere bene. La nostra baracca (Block 18) era la più vicina al piazzale del crematorio, perciò potevamo notare tutti i movimenti. Erano passati pochi giorni quando abbiamo notato molti camion ribaltabili che scaricavano nel piazzale cadaveri come fosse pietrame. Si è formata una montagna di corpi. Pochissimi hanno potuto vedere questo massacro, sia perché dal lavoro si tornava a tarda sera, sia perché il Revier e il crematorio erano recintati. Quando il Revier fu nuovamente saturo di ammalati, altre 1.200 persone furono inviate al "campo di riposo". Gli addetti ai forni e i magazzinieri vestiario si insospettirono di questi movimenti insoliti e prima di consegnare le divise nuove agli ammalati fecero un segno particolare agli zoccoli. Solita partenza, solito arrivo di cadaveri, solito rientro di divise e zoccoli. Ma gli zoccoli erano tutti contrassegnati, e così si scoprì che il "campo di riposo" era quello del riposo eterno.

Altra spedizione, la terza, di 1.200 persone. Il numero di ricoverati al Revier non era sufficiente, perché saputa la verità si facevano ricoverare solo i moribondi. Le SS allora fecero il giro delle baracche per prelevare gli uomini meno in forza in modo da arrivare al numero stabilito. Gli uomini ancora efficienti furono rinchiusi in una baracca per gli attrezzi. Ancora una volta Mario mi salvò mettendomi una fascia di servizio al braccio. Mi fu così possibile assistere alla scena: in tanti non si rassegnavano a questa terribile fine, alcuni si gettavano contro le finestre come gatti infuriati, altri cercavano di lanciarci messaggi, altri ci urlavano i loro nomi perché potessimo avvisare un giorno i loro familiari. Infine tutti furono caricati con la forza sui camion e arrivarono al famoso "campo di riposo".
Adesso vorrei parlare un attimo del lavoro. Le condizioni di lavoro erano disumane: all'esterno si lavorava nel fango e sottoposti a tutte le intemperie stagionali, restando spesse volte con la divisa bagnata fradicia addosso, senza alcuna possibilità di cambio. La vita nel tunnel era anche più insopportabile. Alcuni dei detenuti sono rimasti in galleria mesi e mesi senza vedere la luce del sole. Nel tunnel eravamo costretti giorno e notte a respirare quel gas tossico che emanavano i tubi di scappamento dei mezzi meccanici in opera 24 ore su 24 e in più c'era il polverone sollevato dalle esplosioni delle mine. Agli ingressi scavati nel tunnel c'erano gli stanzoni dormitorio che ospitavano oltre mille persone per ogni turno di riposo.

Per qualche tempo lavorai anche a un comando esterno. Tutte le mattine si partiva a piedi dal campo per arrivare al campo di destinazione. Io avevo sempre pensato che distasse 10 chilometri, ma questa mattina hanno detto 5. Però per noi anche 2 chilometri erano lunghi come 20. Il plotone era fiancheggiato da militi delle SS armati, ed in coda un altro milite con cane al guinzaglio stava alle calcagna degli ultimi in modo di far affrettare il passo ad un ritmo sostenuto, quasi di corsa.
Dopo questa snervante marcia ci attendevano le 12 ore di duro lavoro sottoposti a intemperie, con ogni tempo. Il rientro alla sera veniva effettuato con camion militari che potevano trasportare soltanto tre quarti del gruppo. A questo punto entravano in azione le SS che sapevano come completare il carico: prendevano il moschetto a mo' di bastone e cominciavano a pestare gli ultimi saliti in modo da accatastarli uno sopra l'altro e infine restava uno spazio libero per loro perché si sedevano sulla sponda. Al rientro al campo ci attendevano le solite tre ore in piazza di appello. In una giornata di tormenta dopo ore e ore sotto questa bufera eravamo bloccati nei movimenti, mani e piedi insensibili: non li sentivamo più. Le SS trovarono il modo per riscaldarci: all'ingresso del campo vi era un'enorme catasta di pannelli prefabbricati per il montaggio delle baracche. Ci ordinarono di spostare questi pannelli al lato opposto del campo: il pannello veniva portato da quattro persone, uno per angolo. Le guardie e i Kapò erano schierati lungo il percorso e continuavano a frustare. Arrivato all'ultimo pannello, dietro front, e riportare tutto al loro posto. Al termine camminavamo tutti come sonnambuli e ci attendevano sempre poi tre ore in piazza d'appello. In una giornata gelida ci fu la solita adunata improvvisa: fummo rovistati da capo a piedi. Al termine quattro persone furono messe in disparte ed in nostra presenza furono frustati a sangue. Non soddisfatti di questo trattamento li portarono in una baracca, e liberarono il cane poliziotto. Quando furono stanchi di questo divertimento li buttarono fuori dalla baracca come pezzi di legno. Durante la giornata sparirono e di loro non abbiamo più avuto notizie. Il motivo di questa durissima punizione era solo questo: gli sventurati per ripararsi dal freddo polare si erano fasciati gambe e corpo con la carta dei sacchetti di cemento legati con pezzi di spago o filo di ferro. Per questo vennero accusati di sabotaggio, mentre è bene ricordare che questi sacchetti vuoti venivano bruciati nel campo alla nostra presenza.

Se mi è concesso altro tempo potrei parlare delle punizioni. Di tutti coloro che venivano trovati inoperosi una parte veniva frustata sul posto di lavoro, gli altri erano riservati per dare spettacolo in piazza appello. Durante le interminabili tre ore dell'appello dovevamo assistere allo spettacolo. Il condannato a 25 frustate veniva posto su un apposito cavalletto concavo con le braccia legate su due stanghe e le gambe bloccate con un pezzo di tavola in appositi sostegni. La punizione iniziava con nerbate inferte a tutta forza, e quando il condannato non dava più segno di vita per la perdita dei sensi veniva slegato e messo in disparte. Appena rinvenuto veniva messo al palo. Questi sventurati a braccia incrociate dovevano sostenere con le mani un pezzo di tavola lungo circa un metro e largo 25 centimetri. Quando cadeva la tavola era pronta l'altra dose di nerbate.Quando le SS capirono che questo spettacolo era superato iniziarono le impiccagioni. I primi due che ho visto impiccare sono stati appesi su forche tradizionali: sul solito sgabello erano due ragazzi, ed è stato veramente impressionante sentire questi giovani piangere e chiamare la mamma. Due forche non bastavano per sbrigare tutto il lavoro, perciò un giorno rientrando dal lavoro abbiamo notato a fianco delle tradizionali forche un altro mezzo moderno cioè una forca a sei posti: un piano ribaltabile comandato da una manovella. Bastava una semplice manovra per impiccare sei uomini alla volta e in più due con la solita forca "tradizionale".
Una sera, a metà appello, abbiamo notato un plotone di deportati vicino alle forche. Avevano le mani legate dietro alla schiena e un bastoncino grosso come un manico di scopa lungo circa 20 centimetri in bocca e legato dietro alla nuca per impedire le imprecazioni. Quel plotone era formato da oltre 50 persone condannate per sabotaggio. Per le SS tutto quello che bloccava e rallentava i lavori della costruzione del campo e di tunnel e ritardava la produzione delle V2 era considerato sabotaggio. Io adesso avrei finito, però mi resterebbe da raccontare l'atto finale del nostro calvario, perché quando si delineò con chiarezza la sconfitta della Germania il primo pensiero del comandante del campo era quello del come farci sparire tutti quanti. Minarono gli ingressi del tunnel perché una volta fatto saltare in aria il tunnel doveva essere la nostra tomba comune. Un grosso bombardamento nelle vicinanze fece convogliare nel tunnel tutta la popolazione civile in cerca di rifugio, e questo per noi è stato il primo miracolo. Allora decisero di caricarci sui vagoni bestiame: 110 su ogni vagone. Ci diedero un pezzo di pane ed un pezzo di carne in scatola e poi siamo partiti giorni e giorni senza un goccio d'acqua e nemmeno un pezzettino di pane. Arrivati alla frontiera della Danimarca c'era un enorme campo di concentramento e lì dovevamo trovare la nostra morte comune. Lì avvenne il secondo miracolo: il comandante di quel campo oppose un netto rifiuto a riceverci perché non sapeva come fare sparire in breve tempo migliaia e migliaia di cadaveri. Allora dietro front, ancora giornate e giornate di viaggio sui treni.

Di tanto in tanto il convoglio si fermava e gli addetti al recupero dei morti passavano nei vagoni e ritiravano i morti e li portavano negli ultimi vagoni. Finalmente dopo giorni che si viaggiava siamo arrivati alla stazione di Bergen, per destinazione al campo di sterminio di Belsen. Ci inquadrarono a plotoni fiancheggiati da militi delle SS e in coda un anziano sottufficiale delle SS. Chi non riusciva a mantenere contatto con il gruppo riceveva un colpo di pistola nella testa; poi non si sporcavano le mani a gettarlo nel fosso, lo gettavano nel fosso coi calci. Finalmente arrivammo al campo di Belsen. Qua non sto a raccontare la storia di questi pochi chilometri: la strada, lungo tutti i tre chilometri era fiancheggiata dai morti; mi sembrava un viale di morti. Arrivati al campo, tutti per terra più morti che vivi e non so il tempo che sia trascorso perché i minuti erano ore e le ore erano mesi.
Ad un certo momento sentiamo gridare dei gridi insoliti: siamo liberi, siamo liberi, e anche i moribondi si alzavano in piedi guardando attorno. Dopo un po' di tempo - non so dire quanto tempo è passato - sono entrati gli inglesi con delle camionette e poi carri armati, e cominciarono subito a prestare soccorso ai più ammalati, e poi pian piano a tutti. Nel primo periodo erano quasi peggio dei tedeschi: non ci davano da mangiare niente, pochissimo pochissimo, e noi li abbiamo maledetti anche più di una volta. Poi abbiamo capito che se ci avessero dato qualche cosa in più da mangiare saremmo tutti finiti perché il nostro stomaco e gli intestini erano così piccoli che non potevano accettare più di tanto. Infatti un nostro amico, un certo Adelmo Geroni, un politico, morì lì a Belsen perché era andato in cucina, aveva trovato in mezzo al cartone delle patate e ne aveva fatto una buona scorpacciata. La mattina dopo l'abbiamo trovato disteso morto.
Dopo qualche tempo gli inglesi cominciarono a darci da mangiare ogni ben di Dio. Siamo stati quasi quattro mesi ancora in mano agli inglesi, e abbiamo recuperato tutti quei 15, 20 anche 25 chili che avevamo perso.