La relazione di apertura del prof. Enzo Collotti

I progressi e le incertezze della ricerca storica

1L'esistenza del campo di concentramento di Dora nella letteratura storica sul sistema concentrazionario nazista fu segnalata fin dal primissimo, importante resoconto tra memoria della propria esperienza e primo tentativo di sistematizzazione del fenomeno che dobbiamo sin dal lontano 1946 ad Eugen Kogon stesso, che accenna a Dora non soltanto come Aussenlager, campo filiale di Buchenwald, ma come Stammlager, campo originario autonomo dall'ottobre del 1944. Tuttavia, la specificità del campo di Dora, al di là delle prime testimonianze rese dai reduci del Lager (frequenti soprattutto nella letteratura memorialistica in lingua francese, che è la prima, si può dire, che ha avuto un grande sviluppo per ragioni legate alla presenza a Dora soprattutto di un nucleo molto consistente di cittadini francesi), è emersa negli studi con relativa lentezza e difficoltà.
Nel 1960 una serie di documenti e testimonianze relative alla esistenza di Dora furono inseriti nell'opera su Buchenwald pubblicata a cura di Walter Bartel nella Repubblica Democratica Tedesca. Bisogna ricordare che il campo di Dora come il campo di Buchenwald al momento della divisione della Germania si trovarono inseriti nella zona orientale. L'attenzione della Repubblica Democratica Tedesca per il campo di Dora fu dettata dalla destinazione che esso ebbe in funzione dell' economia di guerra della Germania nazista e dal coinvolgimento della grande industria tedesca, oltre che delle SS, nello sfruttamento del lavoro schiavizzato dei deportati. Nello studio standard con il quale prese le mosse la ricerca scientifica vera e propria sul campo di Mittelbau Dora, studio che rimane tuttora alla base delle più recenti ricostruzioni, apparso nel 1970 a cura di Manfred Bonremann c'e Martin Broazat per conto dell'Istituto di storia contemporanea di Monaco di Baviera, gli autori resero pubblico riconoscimento al lavoro compiuto dagli studiosi della Repubblica Democratica Tedesca soprattutto attraverso la redazione di dissertazioni di laurea tese a valorizzare l'esperienza di Dora.

Ma nonostante questi precedenti negli studi sui campi di concentramento la peculiarità del campo di Dora Mittelbau come campo di concentramento ed insieme come campo di lavoro forzato rimane ancora relativamente poco approfondita per una serie di ragioni che si possono compendiare come segue. Non è infrequente che il carattere autonomo del campo di Dora sia sottovalutato; esso cioè scompare perché la fase successiva all'ottobre del 1944 è considerata unicamente come un prolungamento della vita di Dora in quanto campo esterno di Buchenwald. Come tale per esempio Dora non ha una voce autonoma nel pur meritorio lavoro della Morelli del 1965; scarsa o nulla è l'attenzione per Dora nei lavori di V. Billig sull'importanza del sistema concentrazionario per l' economia di guerra del terzo Reich; sottovalutata mi pare anche la presenza di Mittelbau Dora nel pure importante lavoro di G. Schwarz del 1990 che si presenta come il censimento più recente dei campi di concentramento non solo dal punto di vista quantitativo ma anche sotto il profilo di una tipologia del sistema concentrazionario.

Essa è maggiormente avvertita seppure in maniera non sistematica nello studio di Olga Wormser-Migat, che è il primo tentativo di sintesi generale del sistema concentrazionario nazista del 1968, che dedica un apposito capitolo al lavoro dei campi. Sicuramente hanno influito nel rendere più difficile la visibilità di Dora vistose lacune anche dal punto di vista delle fonti: ad esempio fino ad ora non è stato accertato se sia sopravvissuto alle vicende belliche l'archivio del Mittelwerk, ossia dell'impresa alle dipendenze del ministero del Reich per gli armamenti e la produzione bellica cui fu affidata la gestione dei segretissimi progetti speciali la cui realizzazione doveva avvenire nelle installazioni sotterranee di Dora Mittelbau, come se il segreto che doveva essere custodito dalle viscere del Kohnstein fosse destinato a perpetuarsi anche per il futuro.

Ciò rende ancora più prezioso il contributo della memorialistica ed anche di quel tipo particolare di fonti che sono i disegni dei deportati (vere e proprie fonti documentarie, alle quali dovremmo prestare mi pare maggiore attenzione e vorrei ricordare che tra gli autori di queste fonti iconografiche vi è anche un italiano, Carlo Slama, il cui lavoro forse andrebbe meglio valorizzato).
Infine, non è possibile tacere un'ulteriore motivazione che soprattutto negli anni della guerra fredda sicuramente ha contribuito a fare passare in secondo piano l'approfondimento della specificità del complesso Mittelbau Dora. Ossia l'interesse opposto ma congiunto di sovietici e di americani a non richiamare l'attenzione sulla funzione di fucina delle armi missilistiche che fu assolta dal complesso. Alla liberazione, infatti, sovietici e americani furono interessati a catturare materiali e protagonisti della costruzione delle armi segrete ordinate da Hitler per impadronirsi dei segreti della tecnologia nazista e sviluppare i propri progetti di armamenti e di ricerca spaziale. La recentissima storia dell'occupazione americana in Germania che si deve a K.D. Henke è la conferma ultima dell' interesse che gli americani ebbero, prima di abbandonare la Turingia al controllo dei sovietici in base agli accordi interalleati per la divisione della Germania di asportare impianti industriali, progetti e attrezzature di laboratorio, nonché di impadronirsi di tecnici e scienziati e delle loro famiglie, a cominciare da un nome famoso: Werner Von Braun, che furono costretti a trasferirsi negli Stati Uniti (ma in misura minore avvenne lo stesso per l'Unione Sovietica) per sviluppare i loro progetti nel quadro della ricerca strategica e spaziale in cambio dell'impunità per le corresponsabilità assunte nella conduzione della guerra nazista e nello sfruttamento del lavoro forzato dei deportati.

Credo che per ricordare la storia del campo di Dora nel dopoguerra sia necessario aggiungere un piccolo particolare: gli impianti sotterranei e le gallerie sotterranee di Dora negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra furono fatte saltare dai sovietici nel quadro degli accordi interalleati, e in particolare dell'accordo di Potsdam per la demilitarizzazione della Germania, perché furono considerati impianti militari, come credo potrà eventualmente dire il dottor Hess, che qui rappresenta il memoriale, la Gedenkstätte di Mittelbau Dora. Questo è stato, per la ricostruzione del campo di Dora, un evento abbastanza fondamentale perché una delle preoccupazioni attuali della Gedenkstätte è quella di riaprire, di ridare un accesso alle gallerie con un enorme costosissimo lavoro di restauro per potere mostrare al pubblico ai visitatori che cosa è stato l'inferno di Dora.


2 La creazione del campo di Dora come campo esterno del campo di concentramento di Buchenwald va datata al 28 agosto 1943, giorno in cui giunse alle pendici meridionali del groppone montagnoso del Kohnstein, di altezza non elevatissima, tra i 100 e i 200 metri, un primo trasporto di 107 deportati provenienti da Buchenwald.
La localizzazione geografica di questo Aussenlager pone immediatamente il problema di precisare le ragioni della scelta del luogo e della sua destinazione dal punto di vista produttivo.

Dora infatti fin dal primo giorno fu cantiere di lavoro forzato, un campo di lavoro, non luogo formalmente di detenzione a scopo punitivo né di sterminio per ragioni razziali. Lo sterminio che vi si verificò fu un esempio di "annientamento mediante il lavoro"; obiettivo primario era tuttavia lo sfruttamento radicale delle possibilità lavorative dei deportati.
L'alto tasso di mortalità che ne seguì era il prezzo scontato, quasi un rischio calcolato, per ottenere un elevato ritmo produttivo. Presupposto di questo uso indiscriminato della forza-lavoro era la possibilità di attingere senza limiti al flusso di mano d'opera dai campi di concentramento.
L'insediamento di Dora nacque dalla decisione di trasferire in altra sede le officine di fabbricazione delle armi segrete tedesche. Va detto anche che questo processo di trasferimento dell'industria militare tedesca nelle sue punte più importanti in luoghi sicuri sotto la sferza dell' offensiva aerea alleata non riguarda evidentemente solo Dora; riguarda molte altre situazioni e in molte altre situazioni l'industria fu condotta sotto terra.
Vi sono alcuni esempi che anche alcuni dei presenti potrebbero testimoniare;ricordo semplicemente Ebensee, fra i cui testimoni vi è qui Italo Tibaldi, ricordo Langeusteln tra i cui testimoni potrebbe esserci il nostro amico Berti. Quindi è un provvedimento di carattere generale che tuttavia a Dora ha una particolare rilevanza, perché in questo spazio della Turingia intorno alla località di Nordhausen si viene a creare una delle più grosse se non la più grossa concentrazione di industria sotterranea. Lo scopo era precisamente quello di salvare i progetti di costruzione delle armi missilistiche V1 e V2, che soprattutto nella notte tra il 17 e il 18 agosto del 1943 erano state distrutte dall'aviazione britannica nell'Isola di Usum nel mar Baltico in località Peenemünde.
Il trasferimento fu deciso a seguito di un colloquio tra Speer, ministro responsabile della produzione bellica, e Hitler.

Ora su proposta di Himmler, che avrebbe messo a disposizione il lavoro dei deportati nei campi di concentramento controllati dalle SS, si pervenne alla scelta delle gallerie sotterranee del Kohnstein come base di un insediamento industriale invulnerabile.
Dopo la decisione di trasferire nella zona di Nordhausen, nel cuore della Turingia e dello Harz, nota come meta turistica già alla letteratura romantica ottocentesca, si procedette all'ulteriore sviluppo del sistema di gallerie sotterranee che già esistevano sin dal 1936 e che già erano state adibite a deposito di esplosivi e carburante per conto della Wehrmacht.
Presupposto infatti della costruzione della rete di gallerie sotterranee fu l'esistenza di una società di ricerche economiche, nell'abbreviazione Wifo , che era stata fondata il 24 agosto 1934 ad opera di due soci, uno dei quali era il grande monopolio chimico della IG Farben, con il compito di provvedere a creare riserve di materie prime strategiche in caso di guerra. La scelta del Kohnstein era legata a caratteristiche geologiche, a condizioni di trasporti favorevoli ed al fatto che vi era già attiva fin dall'epoca della prima guerra mondiale l'estrazione di anidride.

L' insediamento nel 1936 della filiale del Wifo a Niedersachswerfen fu il primo passo per la progettazione di uno sviluppo del sistema di gallerie sotterranee. La storia di questo sviluppo è stata ricostruita principalmente da Manfred Bornemann.
Per quanto essa sia interessante dal punto di vista della storia degli armamenti tedeschi, un particolare non privo di interesse: vi fu lavorato fra l'altro lo zolfo che la Germania ricevette da Franco in cambio degli aiuti militari per la guerra di Spagna, soprattutto nella fase dell'autarchia.
A noi interessa capire quale fosse l'estensione della rete delle gallerie al momento in cui ne fu decisa l' utilizzazione ai fini della fabbricazione delle armi segrete con l'impiego della mano d'opera dei prigionieri.

Tra il 1936 e il 1937 fu costruito un primo settore di gallerie (9 m. di larghezza, 7 m. di altezza) percorribili da trenini per il trasporto dei materiali. Tra il 1937 e l'agosto del 1940 fu completato un secondo segmento di gallerie. Un terzo settore fu costruito tra il luglio 1941 e l'agosto del 1943. Le gallerie constavano di due canali percorribili paralleli, attraversati da gallerie trasversali in cui erano previsti i depositi dei materiali e le cisterne per il carburante. L'attività del complesso Dora e il trasferimento della fabbricazione delle armi segrete comportò in via preliminare l'ampliamento del terzo settore del sistema sotterraneo che era anche quello che aveva richiesto il maggiore impegno di lavoro e di investimento per le crescenti difficoltà di carattere geologico. Fin dal luglio del 1943 i dirigenti della produzione bellica avevano previsto la possibilità di collocare gli impianti minacciati nelle gallerie sotterranee del Kohrstein. Subito dopo la decisione dell'agosto del 1943 entrò in scena come uno dei protagonisti principali del futuro sviluppo di Dora il tenente generale delle SS Waffen, (SS-BrigadeFührer) e ingegnere Hans Kammler, responsabile del settore costruzioni edili delle SS, cui sarebbe spettato il compito di fornire la forza lavoro necessaria per portare avanti i progetti relativi alla costruzione delle cosiddette V2.
Il 28 agosto successivo, come ho già detto, si ebbe il primo arrivo di deportati. All'incirca 4 mesi dopo uscì da Dora il primo missile V2.

Per la realizzazione del programma di costruzioni missilistiche fu creata per impulso del Ministero degli Armamenti una particolare società a responsabilità limitata, Il Mittelwerk mett, formalizzata il 21 settembre 1942 con la diretta partecipazione di Speer, del citato Kammler e di tecnici specialistici della burocrazia ministeriale per l'organizzazione dell'economia di guerra. Tra i consiglieri delegati della nuova società spiccavano dirigenti industriali di provata esperienza nella politica dello sforzo bellico come il rappresentante della fabbrica di locomotive Borsig Kurt Kettler e il rappresentante della Wifo Wehling, a significare la sinergia tra apparato di stato e forze dell'economia privata.
Nell'agosto del 1944 la Wifo sarebbe stata totalmente assorbita dal Mittelwerk. Tra gli altri dirigenti del gruppo industriale va annoverato anche lo Sturmbaunführer delle SS Otto Forschner, che sarà comandante del campo di Dora e al tempo stesso direttore dei lavori. In origine, al Mittelwerk era stata attribuita una produzione di 1.800 razzi al mese; successivamente l'autorità militare rivide il piano di produzione passando alla più ragionevole cifra di 900 ordigni, ma neppure questo obiettivo sarà mai raggiunto ed il quantitativo di ordigni validi effettivamente prodotto rimarrà molto al di sotto del livello progettato.

In effetti, la produzione bellica vera e propria nelle gallerie sotterranee potè avere avvio soltanto a distanza di qualche mese dall' inizio dei lavori.
La prima fase dell'attività fu assorbita interamente dal lavoro di ampliamento delle gallerie e di messa a punto delle attrezzature necessarie per alimentare una vera e propria linea di produzione. Fu questa la fase forse più dura per i deportati, costretti a lavorare a Dora in condizione di insopportabile umidità nelle viscere della montagna, spesso sotto il rumore assordante dei martelli perforatori e delle esplosioni necessarie per ampliare i tunnel, in condizioni di alimentazione, di aereazione e di illuminazione estremamente precarie, tra le esalazione di anidride e della polvere della roccia che veniva faticosamente erosa dai prigionieri. In questa fase, fra l'altro, le gallerie non erano soltanto il luogo di lavoro dei prigionieri; esse erano anche i loro alloggiamenti, ricavati nei segmenti trasversali delle gallerie in condizioni di umidità spesso letali, in particolare fino a quando dovettero dormire sulla nuda terra prima ancora che fossero allestiti letti di legno a castello con impianti igienico sanitari primitivi e insufficienti, ed oltremodo insufficienti rifornimenti idrici.

3 Le installazioni sotterranee dominarono interamente la prima fase della presenza dei prigionieri lavoratori. Già in questa fase l'area antistante l'ingresso del tunnel, una radura ai piedi del Kohnstein caratterizzata da un intenso impianto si può dire naturale di alberi molto esteso, ma anche esposta di frequente a forte e gelida ventilazione, incominciava ad essere occupata dagli alloggiamenti e dagli uffici della guarnigione del Lager (al suo massimo livello si calcola che questa comprendesse più o meno un migliaio di uomini, sicuramente tra 800 e 900), dagli uffici del Mittelwerk ed agli alloggiamenti dei lavoratori civili tedeschi in massima parte tecnici riparati da Peenemünde e da altri cantieri ormai troppo esposti ai bombardamenti. In origine, proprio in omaggio alle caratteristiche della massima segretezza che dovevano accompagnare la fabbricazione delle armi segrete, Hitler aveva insistito che a questi compiti dovesse lavorare soltanto manodopera tedesca, per prevenire il pericolo della diffusione di un segreto militare a cui si attribuiva un ruolo decisivo nella determinazione delle sorti della guerra. Il paradosso volle che lo sforzo bellico potesse essere assolto soltanto con il ricorso della forza lavoro dei campi di concentramento, ossia a mano d'opera in grande prevalenza straniera.

Nell'inverno 1943-44 le condizioni dei prigionieri costretti notte e giorno nelle gallerie si rivelarono catastrofiche. Nella primavera del 1944 sulle pendici meridionali del Kohnstein incominciò a crescere l'allestimento di baracche destinate ad alloggiare i prigionieri, che avrebbero dovuto recarsi nelle gallerie soltanto nelle ore del lavoro. Alla fine il Lager in superficie fu delimitato da una recinzione attraversata da corrente ad alta tensione. Il ministro Speer, che si recò in visita al Mittelwerk, racconta che vi regnavano "condizioni scandalose, che per giunta frenavano la produzione". Egli visitò gli impianti il 10 dicembre 1943. Dovrei aprire a questo punto una breve parentesi ma credo che sia opportuno farlo. Il libro nel quale Speer racconta queste esperienze è un libro la cui traduzione in italiano è quanto meno scandalosa. E' stato tradotto da un grande editore, tanto per non far nomi Mondadori. Basti dirvi che tra le scorrettezze della traduzione la principale forse sta proprio nel titolo. Il titolo tedesco di questo libro Der Sklavenstaat significa "Stato schiavista"; ebbene nell'edizione italiana il titolo è esattamente il contrario: "Lo stato schiavo" e non sto a darvi altri particolari della traduzione.

Basti dire che una espressione tecnica che chiunque fa il mio mestiere conosce Todesrate che vuol dire tasso di mortalità, nell' edizione italiana (chi sa un po' il tedesco capisce l'equivoco) è stato tradotto come "consigli di morte". Ve lo dico perché è un esempio di come si può malamente speculare su questa memorialistica di tipo nazista.
Ora a seguito della sua visita a Dora, Speer si attribuisce il merito di avere promosso un migliore trattamento dei prigionieri: "I tassi di mortalità troppo elevati dei prigionieri , egli scrive, l'insufficiente assistenza medica, i dormitori nelle caverne (...) di conseguenza ordinai la costruzione di una città di baracche per i 10.000 prigionieri". Naturalmente Speer non dice che, nella misura in cui mostrava a decenni di distanza una sorta di critica nei confronti delle condizioni nelle quali erano stati posti i prigionieri, contemporaneamente alla sua visita però inviava telegrammi di rallegramenti a coloro che erano i protagonisti di questa situazione e li incitava a proseguire sulla via intrapresa.
Quindi soprattutto se non esclusivamente esigenze di produzione e non certo rispetto umano spingevano ad un trattamento più tollerabile dei prigionieri anche se nelle memorie di questi ultimi non si registrano che raramente cambiamenti sostanziali. Raramente nella memorialistica noi percepiamo il cambiamento di una situazione che a livello ufficiale risulta in qualche modo esservi stato. Secondo Speer il miglioramento fu dimostrato dal fatto che all'epoca della sua visita al Mittelwerk nel dicembre del 1943 su 11.000 detenuti del Lager ne morirono 630 "ossia il 5,7 per cento, mentre nell'agosto del 1944 su 12.000 prigionieri la mortalità era calata a 100 morti, vale a dire allo 0,8 per cento".

Nella graduatoria della morbilità in quelle condizioni primeggiavano la tubercolosi e le patologie polmonari, oltre alla dissenteria. Ma sicuramente un fattore di riduzione della morbilità e della mortalità fu rappresentato dal trasferimento graduale dei prigionieri nelle baracche all'esterno dei camminamenti sotterranei. Nella stessa memorialistica si rintraccia l'eco di questa situazione. Il peggio rimaneva sempre il lavoro o l'alloggiamento nel tunnel. Entro l'estate del 1944 fu completato il trasferimento negli alloggi all'esterno.
In questa fase, secondo la ricostruzione storica più accurata, che è quella compiuta da ultimo dal memoriale di Dora Mittelbau, dalla Gedenkstätte, erano presenti 56 baracche per l'alloggiamento dei detenuti, fornite di letti a castello a più piani e di latrine; altre 12 baracche furono adibite all'amministrazione e ai servizi, una baracca per le docce, una per le disinfestazioni, una per le caldaie, una per il cinematografo e una per il bordello.
La stessa infermeria assunse una funzione assai più ampia fino a comprendere ben 10 baracche, fatto di per sé significativo delle pessime condizioni sanitarie, determinata tra l'altro dalla necessità di fronteggiare epidemie (come quella di tifo) che compromettevano i ritmi produttivi.
Tra i servizi bisogna segnalare anche al culmine dell' espansione del Lager l'esistenza di un forno crematorio. Sino all' inizio del 1944 lo smaltimento dei cadaveri era stato realizzato trasportando in camion nel campo di Buchenwald i cadaveri dei deceduti per farli bruciare nel crematorio. All' inizio del 1944 la situazione era diventata così pesante da richiedere un' apposita attrezzatura autonoma per Dora.

Dopo che nel gennaio fu installato un crematorio mobile, alla fine di marzo 1944 Dora fu dotata di proprio impianto crematorio con tre forni per bruciare i cadaveri.
Il relativo miglioramento delle condizioni dei deportati conseguente all'alloggiamento nelle baracche, dovuto esclusivamente alla necessità di preservare il primato produttivo, non comportò tuttavia alcun allentamento della ferrea e insensata disciplina, un vero proprio sistema di terrore che accompagnava la giornata dei deportati. Soltanto coloro che ad un certo momento venivano condotti a lavorare fuori del campo, o cui veniva anche consentito di andare e tornare da soli dal luogo di lavoro presso privati od altre aziende, potevano sfuggire al controllo costante e capillare da parte dei guardiani, prevalentemente ma non solo uomini delle SS.
L'uso della violenza sui deportati non era soltanto la punizione di trasgressioni vere o presunte loro imputabili. L'uso della frusta, che è una delle protagoniste principali nella memorialistica, sembra rivolto piuttosto a sferzare i deportati perché conservassero ritmi di lavoro sostenuti; aveva una generica funzione di intimidazione e di sprone. I guardiani frustavano come se urlassero; esprimevano in tal modo il linguaggio della violenza che era implicita nel fatto stesso di tenere i deportati segregati in uno spazio chiuso.
Un rallentamento di ritmi, un segno di stanchezza, un gesto maldestro attiravano la frusta.
Comportamenti considerati trasgressivi o addirittura sabotatori facevano scattare meccanismi punitivi e repressivi di ben altra gravità. La fustigazione, con 25 nerbate sul corpo nudo del prigioniero, era sicuramente la forma punitiva esercitata con maggiore frequenza per ogni minima mancanza, per un ritardo al lavoro, per insubordinazione o per qualsiasi altra trasgressione.
L'isolamento nel bunker, la prigione del Lager, la cella di rigore in cui i prigionieri potevano stare a malapena in piedi, se vi si fossero trovati in più di uno, apparteneva ad una forma punitiva ancora più rigorosa e poteva essere l'anticamera dell' eliminazione fisica.

Era comminata per atti o sospetti di sabotaggio, per sottrazione di cibo e di materiali da lavoro, mentre l' impiccagione era riservata a chi avesse commesso atti di sabotaggio particolarmente rilevanti e comunque non ritenuti involontari o a chi rifiutava in maniera diretta di lavorare o avesse tentato la fuga.
Memorie e testimonianze ricordano il rito particolarmente macabro e terrificante delle impiccagioni che avvenivano all' interno dei tunnel, con i corpi dei malcapitati appesi alle gru. L'impiccagione faceva parte inoltre del rito dell'appello: i reprobi venivano impiccati sotto gli occhi di tutti approfittando appunto dell'appello, come monito ed intimidazione rivolti all'intera comunità dei deportati.
Nel corso del 1944 si verificarono due fatti importanti che sottolinearono lo sviluppo di Dora. Il primo di questi fu il trasferimento nelle gallerie sotterranee di altri complessi dell'industria bellica, all'infuori delle attrezzature per la costruzione delle armi missilistiche quali la costruzione di aeroplani per conto delle officine Junkers di Dessan la produzione di carburanti per l'aeronautica. Ciò comportò l'allestimento di nuovi Lager satelliti che presto furono disseminati in tutta l'aera meridionale dello Harz, facendo capo sempre a Dora ma in altre località, a Harzungen (Mittelbau III), a Niedersachs -Werfen e a Ellrich (Mittelbau II).

A seguito di questo sviluppo, nell'ottore del 1944, il complesso dei campi, che nel frattempo erano stati battezzati Mittelbau I, II e III, furono resi autonomi da Buchenwald e raccolti nel Lager di Mittelbau Dora rispetto al quale Dora assunse la funzione di campo principale o Stammlager.
Un'ulteriore modifica nella struttura del Lager, e soprattutto della sua popolazione, si ebbe a partire dall' inizio del 1945, allorché a seguito dell'evacuazione dei campi di concentramento e di sterminio che venivano progressivamente liberati dalle armate alleate, lo Stammlager Dora e i suoi sottocampi dovettero accogliere una nuova massa di deportati che ne modificarono in un certo senso la composizione.
L'arrivo in quantità fino allora inedita di ebrei (gli ebrei ungheresi avevano già cominciato ad affluire dal 1944) e di zingari con donne e bambini presentò agli occhi degli stessi deportati più anziani una realtà parzialmente nuova. Secondo la ricostruzione di Bornemann e Broszat questi campi satelliti si aggirarono tra la trentina e la quarantina. Le incertezze tuttora esistenti nella loro identificazione attestano quanto lavoro resti ancora da compiere per conoscere fino in fondo la realtà concentrazionaria. Il fatto che molti di questi comandi esterni fossero composti da unità di lavoratori forzati relativamente piccole ha complicato certo il compito della loro identificazione e della loro attribuzione ad un territorio ed a una funzione specifica.
Infine, un ultimo segmento nella vicenda del complesso Mittelbau fu rappresentato nell'aprile del 1945 dalla fase dell'evacuazione dei prigionieri ordinata dalla SS alla vigilia dell'arrivo delle forze alleate: una marcia della morte, questa volta a partire da Dora. Non è sicuro quale valore si debba attribuire a un piano delle SS per uccidere tutti i prigionieri intrappolandoli nelle gallerie. L'evacuazione della maggior parte dei deportati avvenne nella notte dal 4 al 5 aprile alla volta di Bergen Belsen. Per fortuna, quest' ultimo insensato trasferimento su carri bestiame, lungo ferrovie incessantemente sotto il tiro dell'aviazione alleata, allontanò solo di pochi giorni la loro liberazione. Gli americani raggiunsero Dora l'11 aprile del 1945 e Bergen Belsen fu liberata dagli inglesi il 15 aprile.
Altri contingenti di deportati furono evacuati alla volta di Sachesenhausen, di Ravensbrück e anche a Mauthausen. Innumerevoli furono in questi ultimi giorni di caos le perdite tra i deportati, molti dei quali furono vittime di esecuzioni collettive e di bombardamenti alleati (come nel caso della caserma Boelcke di Northausen) o di deliberati eccidi da parte delle SS. Si ricorda in particolare il massacro di oltre 1.000 prigionieri nei pressi di Gardelegen.

4 Vorrei infine dedicare un ultimo paragrafo alla composizione della forza lavoro che fu presente a Dora e a Mittelbau Dora. Come sempre quando si parla dei deportati è questa la parte su cui la ricerca dovrà lavorare ancora molto. Se è relativamente facile ricostruire le grandi linee delle strutture di Dora e della loro evoluzione nel tempo in ragione dell'ampliamento delle attività produttive, assai più complicato si presenta il problema di ricostruire una statistica del numero complessivo dei deportati che vi furono impiegati, dei diversi contingenti nazionali, delle qualifiche professionali e delle tipologie individuali. In questo campo la memorialistica si presenta come fonte insostituibile per la ricostruzione delle vicende individuali e per i moltissimi spunti che offre sulla quotidianità nel Lager .
In essa evidentemente non è la precisione di date o di dati che cerchiamo, ma la traccia di situazioni di fatto e di comportamenti di deportati e di sorveglianti e aguzzini che anche quando non hanno un nome e un cognome precisi assumono il significato di comportamenti paradigmatici. La ripetitività delle esperienze che vengono riferite dai testimoni protagonisti non ne sottolinea la monotonia ma la normalità, ossia un livello di generalizzazione sufficiente a convalidare la loro autenticità e il loro carattere esemplare.
E'noto che non possediamo cifre sicure né sul numero complessivo dei deportati impiegati nel complesso Dora e Mittelbau Dora, né sul numero complessivo dei deceduti per cause dirette, i giustiziati, o nella maggior parte dei casi per cause indirette, a seguito dei maltrattamenti impliciti nel lavoro forzato. La discussione sull' annientamento mediante il lavoro in pochi luoghi acquista un significato reale come a Dora. Lo scopo non era certo l'eliminazione fisica dei deportati, tuttavia la massimizzazione dello sforzo fisico e lavorativo che ad essi fu richiesto conseguì un risultato che non si discostava molto dalla loro eliminazione.

Allo stato attuale delle ricerche è comunemente accettata la cifra complessiva di circa 60.000 deportati impiegati a Dora, 20.000 dei quali sono deceduti. Tra le poche cifre significative un unico dato complessivo appare documentato per il momento di maggiore espansione del complesso Dora Mittelbau. Riferita a suo tempo da Bornemann e Broszat, questa cifra attesta la presenta a Dora Mittelbau alla data del 1° novembre del 1944 di 32.471 deportati per l'intero complesso, di cui 13.758 nel solo Lager di Dora.
Ora la cifra di per sé non consente di dedurre quanti deportati erano effettivamente pervenuti a Dora, compresi quindi quelli che erano già deceduti, né di periodizzarne il flusso, nè in termini generali, nè in rapporto ai singoli contingenti nazionali.
Certo è soltanto che gli italiani non potevano essere arrivati prima dell'armistizio del 1943 e che gli ebrei ungheresi non incominciarono ad arrivare prima del marzo del 1944. Viceversa, questa lista contiene cifre che consentono una disaggregazione per nazionalità dei deportati, almeno per i gruppi nazionali più consistenti.
Il gruppo più numeroso era rappresentato dai sovietici, i russi e quelli delle diverse nazionalità dell'Urss. Seguivano nell' ordine i polacchi, i francesi, i tedeschi, i belgi, gli zingari, gli ebrei ungheresi, i cechi, gli italiani, gli jugoslavi e il complesso delle nazionalità minori.
A questa data gli italiani nel complesso Mittelbau risultavano 500 di cui 275 a Dora, una cifra calcolata con tutta probabilità per difetto. Nella gerarchia tra i deportati andava considerata anche l'anzianità di permanenza nel Lager. Dopo i tedeschi venivano cechi e polacchi. I primi avevano cominciato ad affluire a Buchenwald sin dal 1938, i polacchi dalla fine del 1939, dal 1941 i cittadini sovietici. Questi e altri gruppi nazionali quando vi arrivarono gli italiani avevano alle spalle già 4 o 5 anni di campo di concentramento. A parte vi erano una serie di categorie particolari che non cito, le quali comunque non erano quelle quantitativamente più rilevanti.

In questo contesto si inserisce la deportazione dei prigionieri di guerra italiani e degli ebrei deportati come gruppi separati di sicura definizione. Gli internati militari non furono i soli italiani che finirono a Dora. Per molto tempo nella pubblicistica si è fatto cenno soltanto agli internati militari perché si trattava di un gruppo omogeneo di facile identificazione, ma oggi sappiamo sulla base dei dati ultimi raccolti con la collaborazione della Gedenkstätte ed elaborati da Italo Tibaldi che sebbene fossero il nucleo più consistente degli italiani, gli internati militari rappresentavano poco più della metà di tutti gli italiani presenti a Dora Mittelbau. Da quel che ho potuto vedere, salvo errore, risulterebbe la presenza di un solo ebreo italiano a Dora di cui abbiamo la testimonianza Leo Di Veroli. Gli altri deportati all'infuori degli internati militari erano deportati politici o rastrellati in razzie alla caccia di lavoratori e nella memorialistica si potrebbe disaggregare questa tipologia facendo riferimento a casi particolari.

La situazione degli internati militari, anche se nei fatti finiva spesso per confondersi con quella degli altri lavoratori forzati indipendentemente dalla diversità di origine e di categoria, conservava tuttavia alcune particolarità. Dal punto di vista giuridico era chiaro che avrebbero dovuto essere rinchiusi in campi di concentramento per prigionieri di guerra, sotto la competenza e la sorveglianza della Wehrmacht, e non nei Lager di deportazione politica nel quadro della giurisdizione delle SS. Se fossero state rispettate le convenzioni internazionali non avrebbero dovuto essere adibiti a lavori per la fabbricazione di ordigni che avrebbero potuto essere rivolti anche contro l'Italia, specie dopo la dichiarazione di guerra di quest'ultima alla Germania.
Nei fatti i soldati italiani fatti prigionieri all'atto dell' armistizio non giunsero a Dora da Buchenwald, ma dai campi di prigionia in Polonia o in Germania che erano stati il loro primo approdo dopo la cattura. Come spesso è stato sostenuto, soltanto dalla valutazione e dalla conoscenza del numero più largo possibile di casi individuali sarebbe possibile comporre un quadro della condizione specifica degli internati militari, al di là delle generalizzazioni sulle condizioni di partenza dei lavoratori forzati uguali per tutti.
Agli internati militari, ad esempio, non risulta fosse imposta sempre l'uniforme zebrata dei deportati; essi almeno nei primi mesi si distinguevano dagli altri proprio perché continuavano ad indossare l' uniforme grigio-verde dell'esercito italiano. Davano anzi nell'occhio, secondo la testimonianza di altri deportati, proprio per il colore della divisa o meglio si dovrebbe dire dei loro stracci per le miserevoli condizioni alle quali furono da ultimi ridotti.

Per molti versi la condizione degli internati militari a Dora non si differenziò da quella degli altri deportati. Leggermente migliore sembra essere stata la sorte di coloro che furono addetti al lavoro edile, o nei servizi, nelle cosiddette Baubrigaden o che potevano recarsi a un posto di lavoro in fabbrica o in cantieri presso privati senza dover essere accompagnati dai sorveglianti delle SS. Ve ne sono esempi nella memorialistica: qui è presente tra l'altro Calogero Sparacino, cioè un personaggio che ha fornito una fonte di inestimabile valore per la ricostruzione di queste storie. In questi casi essi potevano stabilire con i civili tedeschi un rapporto anche di separazione certo, ma forse in qualche misura di umana comprensione, ricevendone qualche piccolo vantaggio nel cibo, nell'abbigliamento e negli stessi ritmi di lavoro oltre che nella disponibilità di qualche marco. Il fatto che i militari italiani fossero registrati a parte con una particolare numerazione rimase tuttavia un fatto meramente formale.
Proprio il loro caso, come quello dei prigionieri di guerra polacchi o sovietici, è la dimostrazione di come la prigionia della seconda guerra mondiale in mano tedesca si differenziasse profondamente dalla prigionia della prima guerra mondiale e nei casi limite fosse assimilata e si confondesse puramente e semplicemente con la deportazione indiscriminata. Sugli internati militari deportati a Dora nessuna influenza per quanto sappiamo dovettero avere gli accordi tra la Repubblica sociale e i tedeschi per la cosiddetta trasformazione dei prigionieri italiani in "lavoratori civili"; ma penso che di questo parlerà più ampiamente Cajani domani.
Nei fatti, gli italiani che talvolta erano guardati con diffidenza e anche disprezzati dai deportati di altre nazionalità (dai polacchi e dai francesi, in particolare, che non dimenticavano l' aggressione italiana alla Francia) risultavano particolarmente invisi ai tedeschi perché ai loro occhi si erano macchiati di tradimento.

Ciò dava luogo a piccole e costanti umiliazioni. Nella memorialistica è diffuso l'appellativo dispregiativo "Badoglio macaroni" che di per sé è tutto un programma, e spiega anche la volontà di vendetta dei tedeschi.
Un fatto che distinse i deportati italiani dagli altri è che non risulta dimostrato che nella gerarchia concentrazionaria salvo errore vi siano stati Kapò italiani. Vi sono stati certamente Stubendieust, Blockaltesti e Vorarbeiter italiani, ve ne sono diverse testimonianze nella nostra memorialistica.
Ma non ho trovato nessun Kapò; a parte la diffidenza per gli italiani è probabile che questa circostanza sia derivata dall'arrivo tardivo degli italiani nei campi di concentramento, quando ormai gerarchie e strutture erano già stabilite sulla base tra l'altro dell'anzianità di presenza nei Lager.
Un'altra considerazione relativa agli italiani riguarda la composizione professionale. La presenza di molti deportati dalla Francia, dal Belgio, dalla Norvegia è stata spiegata con la razzia compiuta dai tedeschi di mano d' opera qualificata, tecnici ed ingegneri, soprattutto, in paesi con alto livello di industrializzazione e quindi con elevate qualificazioni professionali.
Ebbene nel caso degli italiani sembra sia prevalso l'uso della manovalanza per lavori pesanti. Tra i militari catturati vi erano certamente operai, meccanici, muratori ma prioritariamente, secondo del resto le caratteristiche dei soldati reclutati per la guerra nella società italiana di allora, predominava l'elemento contadino.

Anche l'appartenenza a classi di età relativamente giovani, comunque sotto ai 35 anni, risponde alle classi dei richiamati per il servizio di guerra.
Vorrei accennare da ultimo a un problema: in quale misura era possibile e fu praticata una resistenza nel Lager Dora Mittelbau? Nella pubblicistica apparsa all'epoca della Repubblica Democratica Tedesca vi è stata sicuramente un'enfatizzazione della resistenza antifascista simboleggiata nel caso di Dora dalla figura di Albert Kuntz, già deputato al Landtag di Prussia.
Nella produzione storiografica degli ultimi anni emerge la tendenza a smitizzare gli eccessi retorici della letteratura della Repubblica Democratica Tedesca, ma talvolta forse anche a negare in toto possibilità di episodi di una resistenza. In un contesto come quello di Dora Mittelbau la forma più naturale di resistenza non poteva essere che il sabotaggio alla produzione.
Che episodi di sabotaggio vi siano stati è indubbio, anche se è molto difficile precisare se e in quale misura l' alto tasso di scarto nella produzione delle armi segrete sia stato dovuta a consapevoli atti di sabotaggio o piuttosto a difetti tecnici dovuti ad altre ragioni e principalmente alla non ancora perfezionata messa a punto della progettazione della produzione di ordigni sofisticati.

L'alto numero di deportati uccisi per sabotaggio non implica di per sé che l'imputazione di sabotaggio attribuita dai tedeschi corrispondesse ad atti di sabotaggio effettivi; spesso si trattava soltanto del pretesto per compiere azioni intimidatorie e repressive all' interno della stessa collettività dei deportati, la cui scarsa produttività derivava non solo da volontà di rallentare i ritmi, ma anche dalla scarsa vigoria fisica a seguito di denutrizione ed indebolimento di organismi colpiti dai maltrattamenti e costretti in condizioni inumane e anche climatiche intollerabili.

Più che il sabotaggio consapevole, sul lavoro frequenti erano le proteste e gli atti di insubordinazione con quali i deportati cercavano di tutelare la propria sopravvivenza fisica, tentando di sottrarsi ai lavori più defatiganti, di ottenere qualche caloria in più, di sottrarsi alla sferza di un clima inclemente.
Tale fu anche la protesta dei sette militari italiani che furono fucilati il 15 dicembre 1943 a Dora ad esempio ed intimidazione di altri prigionieri (non sei non cinque o quattro, come si legge in diverse testimonianze e ricostruzioni). Anche solo questo caso è abbastanza interessante per capire la difficoltà di portare a conclusione le ricerche, considerando le diverse versioni che noi abbiamo avuto di questo episodio nel tempo.
Quale che sia stata la motivazione reale della loro protesta - rifiuto per principio di lavorare alla produzione bellica in spregio alle convenzioni internazionali, protesta contro il lavoro troppo pesante o richiesta di una alimentazione adeguata, alla loro fucilazione è stata attribuita nella storia del Lager una grande rilevanza.

Non sappiamo se e quanti altri eccidi di questa natura siano stati perpetrati in altri campi a carico di prigionieri italiani; l'eccidio di Dora fu recepito come un atto di ribellione e di resistenza e non è casuale che anche nella più recente sistemazione dell'area ad opera della Gedenkstätte, sul sito della fucilazione sia stata richiamata esplicitamente l'attenzione con una apposita tavola informativa, che assume il valore simbolico del riconoscimento dell'infimo rango che nella gerarchia dei forzati di Dora fu attribuita ai militari italiani. Ma anche, io credo, dell'orgoglio e della fierezza con la quale questi prigionieri rifiutarono di chinare il capo alle sopraffazioni delle SS.