Mi sia concesso esprimere a tutti i presenti
il commosso ringraziamento delle donne di Ravensbrück che sono qui convenute
e a nome di quelle che, pur non avendo potuto partecipare a questo incontro,
sono spiritualmente, ne sono certa, qui con noi. Un grazie particolare
a Madame Jacobeit, direttrice del museo del campo e alle splendide donne
dell'Amical di Ravensbrück che in tutti questi anni hanno lottato con
pervicacia per difendere questo simbolo della memoria perché
sia di monito alle future generazioni.
"Ravensbrück", Ponte dei corvi. Questa è la traduzione italiana
del nome di questo luogo che oggi è così luminoso, col
sole che rende iridescenti le acque del lago e i salici che s'inchinano
quasi a lambirle: un paesaggio idilliaco, se non fosse per la presenza
di quelle sculture raffiguranti donne macilente che suscitano pietà
e tristezza in chi le guarda e che richiamano alla mente le atroci sofferenze
da loro subite; se non fosse altresì per la presenza di quella
statua di donna che sembra sorgere dal lago e che solleva il figlio
morto in un gesto di ieratica accusa; o, ancora, se non fosse la vista
di quel lunghissimo muro che testimonia la vastità del campo
e su cui sono segnati i nomi delle nazioni da cui provenivano le deportate.
Queste immagini suscitano in noi deportate ricordi drammatici: la luce
così viva che oggi ci accoglie si stempera nel ricordo e in questo
ricordo rivediamo tutto tingersi di grigio: grigia questa terra di palude
che si attaccava alla pelle e vi rimaneva, grigi i baraccamenti e gli
abiti delle prigioniere e su tutto questo grigiore, che ormai faceva
parte di noi, il gracchiare ossessivo dei corvi che ci accompagnava
durante tutta la giornata e si spegneva solo a sera, col buio della
notte che finalmente cancellava il grigio del giorno e ci portava il
sospirato silenzio.
130 mila deportate, 92 mila morte
F.K.L. (Frau Konzentration Lager): campo, cioè, aperto nel 1939
come campo di rieducazione per le cittadine tedesche anti-naziste, per
le testimoni di Geova e per le "asociali". Vi furono in seguito internate
130 mila donne, di tutte le nazioni invase dalle truppe naziste, e di
esse ben 92 mila vi trovarono la morte.
Quando la Germania mosse guerra all'Europa e nei territori occupati
cominciò a serpeggiare la rivolta e si consolidò la resistenza all'invasore,
le donne, via via arrestate, furono per la maggior parte deportate a
Ravensbrück dove vennero contrassegnate con un numero e un triangolo
rosso, segno della deportazione politica.
Con l'aumentare dell'affiusso delle donne internate, il campo si ampliò:
arrivarono svedesi, norvegesi, danesi, russe, polacche, olandesi, francesi,
belghe, spagnole. Le prime donne italiane giungono al campo nell'agosto
del 1944: sono solo 14 e provengono dalle "Nuove" di Torino.
Altre arrivano ai primi di ottobre: sono 113, fra cui liguri, lombarde
ed emiliane provenienti dal campo di smistamento di Bolzano; in seguito
vi sono trasporti anche da Udine, Trieste, Gorizia.
Secondo le ultime ricerche fatte da Giovanna e Paolo Massariello, al
cui interessamento dobbiamo questa nuova lapide, sono circa 600 le italiane
deportate a Ravensbrück, ma non conosciamo ancora la precisa consistenza
della deportazione politica delle donne italiane, in quanto mancano
notizie precise sull'internamento femminile in campi come Bergen Belsen,
Mauthausen, Dachau, dove sappiamo soltanto che furono inviati piccoli
gruppi di italiane. Quando arrivano a Ravensbrück, le italiane trovano
il campo già sovraffollato: tra loro casalinghe, studentesse,
insegnanti, commercianti. Sono donne semplici e quasi nessuna di loro
conosce la lingua tedesca né, tantomeno, quella polacca, cioè
le due lingue ufficialmente parlate nel campo.
Sono sole, isolate, male-accette. Le altre deportate vedono in loro
le appartenenti a un popolo che ha fatto la guerra al loro paese, che
ha distrutto le loro case, le identificano come "fasciste" e per i tedeschi
esse sono le "sporche donne di Badoglio", cioè l'espressione
stessa del tradimento.
Molte vengono smistate in altri sottocampi, disperse tra deportate di
altra nazionalità.
E per loro la realtà si prospetta subito drammatica. Senza la
conoscenza della lingua né del tipo di lavoro che l'attende nelle
fabbriche, dovranno da sole trovare in se stesse la forza che le aiuti
a resistere, e quindi, a sperare di salvarsi la vita. E' così
che, giorno dopo giorno, scoprono le regole della sopravvivenza, imparano
a dire a memoria il proprio numero in lingua tedesca, a muoversi, a
difendersi, a sfuggire alla violenza delle kapò e delle sorveglianti;
vedono nascere fra di loro fraterni vincoli di solidarietà che
le aiuta soprattutto a non lasciarsi andare e a non gettare la spugna.
E tutto ciò non era facile, se si pensa che nel campo l'umanità
aveva raggiunto il più basso livello di degradazione, giacché
era giunto a non rispettare neppure la maternità: basti dire
che alle madri venivano strappati i loro bimbi appena nati per essere
sottoposti ai più scellerati esperimenti.
Quando le forze alleate sfondano i vari fronti e da una parte i Russi,
dall'altra gli Americani stringono come in una morsa il territorio tedesco,
le industrie chiudono le fabbriche e le deportate vengono ricondotte
nel "grande campo", dove ormai regna il caos e la morte. Poche per volta
le tedesche vengono liberate, le francesi e le belghe vengono salvate
dalla Croce Rossa.
Tra il 25 e il 27 aprile, poiché i Russi sono ormai a pochi chilometri,
ad eccezione di alcune centinaia di donne gravemente ammalate, le ultime
deportate rimaste nel campo (italiane, russe, slovene), abbandonate
a se stesse dai loro aguzzini in fuga, devono ora affrontare da sole
il momento critico dell'evacuazione.
La tragica marcia di 200 chilometri
Sono giunte ormai al limite della resistenza fisica. Distrutte, spaventate,
sparute larve umane, guidate dai cani e dai soldati, sorrette solo dalle
loro misere forze e spinte dallo spirito di sopravvivenza, eccole ora
in cammino sulle strade tedesche: da una parte ci sono loro, lunga fila
di stracci grigi e di relitti umani, al centro le truppe tedesche che
fuggono di fronte al dilagare dell'esercito russo, sull'altro versante
della stessa strada la popolazione che fugge anch'essa all'incalzare
delle temutissime truppe russe.
Camminano per circa 200 chilometri, durante i primi chilometri con la
folle paura di sentirsi mancare le forze e di essere abbattute da quel
colpo alla nuca con cui i loro aguzzini giustiziavano chiunque vedessero
cadere: non poche morirono così, freddate sul ciglio della strada,
ormai a poche ore dalla libertà. Le altre, le più fortunate,
furono liberate dai Russi a Sverin o dagli Americani a Parkim: ma forse
neppure la libertà le fece gioire, giacché gli ultimi
giorni erano stati per loro così terribili che difficilmente
si resero conto di ciò che stava loro accadendo. Queste donne attesero
quattro lunghi mesi prima di essere rimpatriate.
Il difficile inserimento
Difficile fu il loro reinserimento nel "quotidiano": angosciate perché
non si sentivano credute o perché leggevano nei volti altrui
indifferenza e dubbio, si chiusero nel loro privato, sperando di riuscire
a dimenticare. Ma per noi, donne di Ravensbrück, questo non fu possibile
perché, malgrado il nostro silenzio e il desiderio di oblio,
da questo campo noi non siamo mai uscite. Anzi, vorrei dire che da questo
campo abbiamo portato con noi, indelebile, il ricordo di donne, che,
malgrado la difficoltà del linguaggio (pensate che talvolta si
riusciva a colloquiare parlando in latino), malgrado la differenza di
religione, di ceto sociale, di cultura, di abitudini, hanno saputo intrecciare
amicizie che sono durate nel tempo.
Perché nel campo quelle donne hanno imparato a conoscere le basi
della vera democrazia, e soprattutto perché il campo, ad onta
di tutto il male che ne hanno ricevuto, è stato per loro anche
una grande scuola di vita. Una "scuola" che ha insegnato loro a scrivere,
in tante lingue, il più appassionato atto di accusa contro tutte
le guerre e, nello stesso tempo, il più sublime atto di fede:
fede nella pace tra i popoli e altresì fede nella invincibile
forza che solo l'unione degli umili può ergere a difesa del destino
dell'intera umanità.
Ed ora, prima di chiudere con voi questi amari ricordi, permettete che
io rivolga il mio pensiero riconoscente a Lidia, Lidia Rolfi, la compagna
con cui abbiamo condiviso la prigionia, il lavoro in fabbrica e tante
umane sofferenze, a Lidia che con il suo coraggio indomito ha saputo
infondere in noi, donne, di Ravensbrück, la forza per raccontare, per
testimoniare, per non dimenticare.
E' a lei che si deve il merito di aver avviato, per prima, le ricerche
sulle donne deportate a Ravensbrück, a lei, sopra ogni altra, che oggi
dobbiamo la nostra presa di coscienza: "per raccontare, per testimoniare,
per non dimenticare!" Grazie, Lidia, oggi anche tu sei qui con noi.
Bianca Paganini
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