Il trauma del ritorno nei ricordi di Felice Malgaroli, ex deportato a Mauthausen

La mia "Tregua" durata decenni

La tregua: di questo bellissimo film sentiamo commenti e opinioni contrastanti giacché esperti storici e appassionati alla fiction vedono da ottiche diverse l'immagine di quel passato.

Alla "Prima" al Teatro Regio, in una zona d'angolo riservata, era presente un modesto gruppo di ex deportati, dimenticati dai media e dal pubblico hanno tuttavia apprezzato il giusto omaggio riservato al gran mondo del cinema. Si sa che così vanno le cose del nostro tempo dove è diventato costume che le cose valide siano solo quelle dette da chi è citato dalla critica o dalla televisione. Quindi nulla di strano se in quella serata i media non hanno fatto caso alla presenza dei protagonisti di altre "Tregue", ciascuno con la propria nell'animo e alcuni col dubbio di non averla ancora conclusa. Infatti La tregua è (tra le altre cose) anche una riflessione sull'uscita dal Lager, e ogni sopravvissuto ne è uscito (all'inizio) solo fisicamente, e ha subito la propria "Tregua" per anni prima di poter uscire da quella esperienza anche con la mente. Ricordo il 1945 quando anch'io appena tornato camminavo in città e rivedevo le volte che, in Lager, avevamo immaginato di farlo insieme per ubriacarci di speranza, quando tornare nel mondo dei vivi era ormai solo caparbia illusione e non più voglia di vivere, che lo sfinimento ci offriva settimane lunghe come anni, e il sopravvivere era un residuo di istinto primordiale. Da qualche parte del nostro sacco umano sorgeva un muto grido di sopravvivenza, non tanto dissimile da quello dei selezionati che ridotti a piccole colonne di scheletri denudati venivano avviati al crematorio. Essi non piangevano, né elevavano nenie mistiche o citazioni citabili, ma esibivano solo braccia cadenti e teste curve di rassegnazione da cui, a volte, usciva uno sguardo indefinibile; un'ultima scintilla di vita chiedeva: "Perché?" A questo pensavo mentre andavo per le strade di Torino, ma non le sentivo mie, non ne traevo beneficio giacché nei miei occhi c'era ancora e sopra ogni cosa quel "Perché?". Rivedevo quando oltre i reticolati era apparso un Deus liberatore; un tank americano seguito da una pattuglia di ragazzi yankee che, storditi dall'orrore tagliavano il reticolato. Poi il primo cibo, il buttare gli stracci, il saccheggio del magazzino militare per indossare abiti e utili stivali. Il nazismo è sconfitto e nella prima notte di libertà credo di elaborare un pensiero: la guerra è finita e giacché siamo liberi e uguali mi fermo a dormire tra i russi, respirare la loro aria forse mi lascerà un segno di quanto fossero reali i racconti paterni sulla Russia libera, un vago ricordo della Resistenza che dovrebbe, con questo passo, aiutarmi a capire come sarà il domani. Nella notte alcuni di quei compagni mi svegliano e si fanno consegnare panni e stivali. Sono compagni di Lager, li conosco e cerco di protestare: "Ma la guerra non è finita? E tu Yoris eri partigiano in Italia, come mai ora ... ?". Col gergo di Lager farfuglia su qualcosa di un domani incerto e simile a un'altra guerra che continua; nello sguardo è ancora l'amico di ieri, poi compassionevole per la mia ignoranza scrolla la testa, volta le spalle e sparisce. Di questa esperienza nulla racconto, giacché se il fascismo è stato un errore fatale ora vogliamo pensare sia vero l'opposto, un'altra "idea" densa di promessa e di continue spiegazioni tra cui diluisco anche quel brutto ricordo. Non potrei fare altro; delle realtà della vita non comprendo nulla, sono ancora un pezzo di Lager attorno le cui ossa s'è formata la came, ma il cervello pare acqua; vedo attorno a me gente che ha idee e conosce dettagli di lotte e successi rivoluzionari di altri popoli, sparsi in altri luoghi e in altri spazi di tempo, ciascuno trae conclusioni e nel quotidiano si avvia al futuro con certezza, ma per me è solo un brusio di gente saputa. Mi pare di essere il solo a non saper cosa fare, il Lager ha cancellato anche i valori delle cose buone e semplici; una tendina stirata, il ricevere un fiore o il camminare tra la gente libera non mi rende libero, del tavolo apparecchiato non conta la cura festosa ma solo il cibo, e gli altri non sanno, non capiscono e non vogliono sapere. Amano ascoltare fatti cruenti per provare emozioni, ma non possono immaginare cosa sia stato aver visto uccidere e torturare con indifferenza, e ora l'indifferenza loro mi ferisce, ma non posso spiegare perché non esiste ancora un linguaggio per dire Lager. Intuisco appena che non potrò cominciare a vivere se non riesco a uscire dal Lager raccontandolo, ma ogni mattino rimuovo gli incubi notturni, ho altro da fare. In officina svolgo un lavoro duro di forno e maglio, otto ore di fragore e vuoto. A sera la cena e poi in tram alla scuola serale. Anni immerso in questa nebbia; officina e pasti, trigonometria e legge di Ohm, e misure elettriche e cose astruse che ricostruiscono i piani di memoria in quel liquido cerebrale che a poco a poco si addensa. Sono passati cinque anni, ho finalmente un diploma in mano, uno strumento per alzare la testa in un mondo sconosciuto. D'ora innanzi comincerò ad uscire dal Lager, forse. Ecco questo è stato l'inizio della mia "Tregua", simile a quella di alcuni altri ex deportati lavoratori. In seguito ho fatto carriera, ho lavorato all'estero, imparato idiomi e quindi ampliato lo sguardo sul mondo, ma qui dentro è rimasto un oscuro pezzo di Lager, e in questa occasione, oggi 1997, sostengo che "La mia Tregua" è durata decenni. Se è terminata non posso saperlo. Neanche per Primo Levi possiamo saperlo; alla fine del film il protagonista si siede e comincia a scrivere, ma è solo fiction.
Felice Malgaroli

Felice Malgaroli, deportato a Mauthausen, matr It. 115577. Vive a Torino, ha scritto Domani Chissà, Racconto storico 1938-1952 (prefazione di Norberto Bobbio) Edizioni L'Arciere, e Transeuntes, Italiani Emigranti a vita, Edizioni L'Arciere.