Don Paolo è stato
eletto presidente del consiglio di amministrazione dell'Opera
Cardinal Ferrari dal prefetto di Milano nel 1970 e da allora
è sempre stato rieletto ininterrottamente. Puntualmente
presente ad ogni riunione sia di consiglio di amministrazione,
sia del comitato permanente, anche quando la salute precaria
già rendeva faticoso arrivare fino alla sede legale dell'Opera
di via Mercalli.
Sempre attento a quanto
gli andavo proponendo, soprattutto all'intento di non limitare
la funzione dell'Opera ad offrire ai "meno abbienti" un pasto
completo e un luogo caldo dove passare le ore del giorno, ma
di offrire via via servizi e opportunità che ridessero
dignità alla persona, che risvegliassero il senso di
appartenenza ad una comunità, che aprissero all'amicizia
e all'aiuto reciproco. In questo progetto ho sempre avuto da
Lui (e sono più di vent'anni) la più totale approvazione,
di più; un appoggio incondizionato ed affettuoso, un
sostegno fatto di condivisione e di amicizia.
Aveva un modo signorile
fatto di sottile umorismo e di sereno distacco per sdrammatizzare
le cose, per riportare ad un sorridente equilibrio le situazioni
più tese, per mostrare gli errori senza che il responsabile
se ne umiliasse, anzi, portandolo a riderne.
Ricordo a questo proposito
una riunione di consiglio per la revisione dello statuto in
vista della riprivatizzazione dell'Opera dopo che nel 1936 era
stata annoverata tra, le, opere pie, pertanto assoggettata alle
leggi disciplinanti le I.P.A.B. (Istituzioni pubbliche di assistenza
e beneficenza). Io non sono una letterata, e nella stesura da
me predisposta avevo usato la punteggiatura con una certa approssimazione.
Don Paolo, di cui tutti conosciamo la raffinatezza
ed eleganza dello scrivere, non solo mi mostrò con un
comicissimo gioco di spostamenti di virgole, tutti i possibili
e grotteschi significati che poteva assumere la mia relazione,
ma le dedicò perfino un'ode estemporanea che ci fece
sbellicare dalle risa.
Mai una lezione di
punteggiatura era stata più precisa, divertente e amorevole.
La sua capacità di entrare in sintonia con l'altro, chiunque
altro, lo ha reso amatissimo.
Intorno agli anni cinquanta
veniva in via Boeri per la messa, intensamente pregata. Breve
nell'omelia che non mancava mai di un aneddoto gustoso, condito
del suo inimitabile umorismo; e poi scendeva nella sala da pranzo
a intrattenersi coi "Carìssimi", che amavano parlare
con lui. Se ci fosse stato, già allora, il torneo di
scopone che tiene impegnati nei lunghi pomeriggi i nostri ospiti,
sono certa che si sarebbe seduto ad un tavolo con loro, appassionandosi
alla partita a carte.
Questa affabilità,
che non era condiscendente paternalismo, ma schietta e cordiale
partecipazione alla vita dell'altro, non so se fosse una dote
in lui innata, o frutto di dolorose esperienze.
Don Paolo era reduce
dai carripi di Dachau. Era l'aver sperimentato cosa significa
aver fame (non la fame, allegro appetito che precede un pranzo
assicurato, ma la farne che sa che non sarà saziata)
e panni bagnati e il freddo fuori e dentro le baracche, che
lo rendevano così vicino a quei poveri? O era il suo
essere così profondamente unito a Dio, al Dio che si
è fatto uomo, che lo rendeva capace di farsi l'uomo che
aveva di fronte, di sentire come sua la sofferenza dell'altro
e la sua gioia?
Maria
Teresa Sarati
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