Un testo di don Paolo Liggeri, recentemente scomparso

Chiediamo la riconoscenza di tutti nei confronti delle vittime dei Lager

In ricordo di don Paolo Liggeri, recentemente scomparso, pubblichiamo un suo testo inedito, testimonianza della sua grande passione.

E' fatale che il morso inesorabile del tempo corroda anche i monumenti, che la polvere si adagi su tutto e le erbacce non rispettino neanche i cimiteri degli eroi.
Ma non è giusto.
Quando, cessate le ostilità del secondo flagello mondiale, cominciarono ad affluire i primi reduci dai campi nazisti di eliminazione, e la stampa e lo schermo testimoniarono l'orrendo martirio di milioni di esseri umani, la pubblica opinione fu pervasa da una ondata di raccapriccio e di commozione. Poi serpeggiò una sottile incredulità, sempre più avvantaggiata dalla malaccorta speculazione dei partiti politici, che si affrettarono a pescare il loro tornaconto anche in quello sterminato mare di sofferenza. Infine cominciò a cadere sempre più spesso e ignominiosa la polvere dell'oblio. La "Faccenda" non era più d'attualità, non "serviva" più...
Ora, noi che vivemmo questa tremenda avventura, noi che uscimmo miracolosamente da quelle ossessionanti "Fosse di serpenti" che furono i campi dello sterminio, noi che agonizzamo giorno per giorno, ora per ora, accanto ai nostri fratelli che cedettero alla morte, noi sentiamo il dovere di levare un grido di protesta per l'indegno oblio.
Non è giusto che si parli di "Resistenza" e si tengano in ombra coloro che, forse per primi, quando ancora il rischio poteva sembrare follia, buttarono il peso della loro azione generosa e il tesoro prezioso della loro vita nella lotta per la rinascita della patria. Non è giusto che si decantino le gesta chiassose di molti "eroi" dell'ultima ora e si ignorino gli "eroi" silenziosi, che con la loro immolazione cementarono le fondamenta del nuovo Risorgimento italiano.
Sulle innumerevoli fosse dei campi nazisti della morte, sulle ceneri disperse dei corpi di mille e mille nostri fratelli, uccisi nelle camere a gas, abbattuti dalla fame, dal gelo, dallo sfinimento, dalle più disumane violenze, distrutti dal fuoco inesorabile dei forni crematori, vogliamo che si levi la riconoscenza indeclinabile degl'italiani tutti, senza distinzione di razze e di ideologie, i nostri fratelli insieme seppero affrontare l'arresto, la deportazione, i più inauditi tormenti fisici e morali, l'Olocausto supremo. E il ricordo servirà anche a confortare gli altri che scamparono - quasi non si sa come - alla morte, ma tornarono in mezzo ai vivi, serbando nella gelosa intimità del loro cuore cicatrici ancora doloranti che sembrano destinate a mai più rimarginarsi.
E conforterà anche in qualche modo coloro, che dopo avere lungamente atteso, in un'agonia senza nome, il ritorno dei loro cari, seppero poi che la loro attesa era stata vana e la loro agonia senza frutto.
Vogliamo però che nessuno ci fraintenda e ci additi - magari per celare la propria ignobile indolenza - per seminatori di odio.
Sopra una così immensa moltitudine di sofferenze umane e di nobili olocausti, l'ansito dell'odio suonerebbe infatti come una volgare profanazione. E aggiungerebbe un anello alla troppo lunga catena delle ritorsioni senza fine che accompagnano le degenerazioni e il dissolvimento dell'umanità.
Racconta il celebre violinista ebreo Jehudi Menuhin: "Subito dopo la guerra accettai l'invito dell'alto commissario americano in Germania di suonare a Berlino. Questo sollevò l'indignazione di tutti gli ebrei, da New York ad Israele. Mi biasimavano perché accettavo di presentarmi in un paese dove i miei correligionari avevano subito un trattamento tanto tremendo. Queste critiche mi addolorarono profondamente. Tuttavia sentivo che cedere all'amarezza sarebbe stato un rinunziare alla mèta lontana: affratellare di nuovo gli uomini. "Quella sera a Berlino parlai al pubblico: "E' l'odio che ha condotto allo sterminio degli ebrei" dissi. "Ma rispondere all'odio con l'odio è vano. Stasera io spero che potremo cominciare a capirci attraverso la musica che voi e noi amiamo"."
Noi odiamo la violenza, la sopraffazione, l'ingiustizia, la tirannia, ma intendiamo aver pietà degli uomini. Non c'è infatti un essere umano più disgraziato e più commiserevole del cattivo, del degenerato, che, nella sua aberrazione, non si accorge di distruggere se stesso, degradandosi al livello dei bruti. Odiarlo significherebbe abbassarsi allo stesso livello.
Ma difenderci, si, questo è un dovere, prima ancora di un diritto: difenderci perché il bruto non abbia a ripetere le sue gesta cnminose, perché nuovi anelli non si aggiungano alla catena delle aberrazioni, perché la violenza e l'ingiustizia, la sopraffazione e la tirannia non tornino ad oscurare la libera esistenza umana. Difenderci, tenendo vivo il ricordo della sanguinosa bufera, che gli uomini superficiali e incauti vorrebbero dimenticare. E trarre dal ricordo le necessarie deduzioni.
L'ammonimento sempre valido ed attuale, che il ricordo ci ripete incessantemente, è questo: tutti gli uomini, siano tedeschi o russi, americani o italiani, bianchi o neri, ebrei o cattolici, fascisti o antifascisti, tutti", quando non credono in una giustizia superiore, infallibile e inappellabile, possono smarrire il senso della dignità umana e divenire capaci delle più orribili scelleratezze; quando perdono il senso del divino, distruggono gli altri, e, di conseguenza, anche se stessi.
Anche per questo vogliamo ricordare. Ed anche sotto questo aspetto non sono i morti che devono esserci riconoscenti del commosso ricordo, ma siamo ancora noi che dobbiamo essere loro grati di un ricordo che è ragione di vita.
Don Paolo Liggeri Matricola 134.381

 

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