Il valore della solidarietà e dell'impegno
che sfidano l'arroganza e l'ignoranza
Quando Roberta ed io partiamo da Roma è
notte. L'alba ci trova a Bologna. La corsa in macchina finisce alla
Malpensa dove ci attende Silvana, nostra compagna e guida in Polonia.
Un viaggio che inizia con una serpresa: con noi ci sarà anche
Carlo Todros e con lui i suoi meravigliosi amici di Carpenedolo. Un
comodo volo sopra montagne assolate e nevose, sopra estese pianure ed
eccoci a Varsavia.
Il momento più toccante nella visita alla città ce lo
riserva il monumento agli eroi del Ghetto. Carlo ed io vibriamo di emozione
e di commozione. Due ebrei, uno superstite di Mauthausen, l'altro alla
ricerca di un segno del padre scomparso, entrambi davanti a ciņ che
resta di una pagina epica del riscatto umano. La storia di quegli anni
tremendi ci piomba sulle spalle molto più di quanto potessimo
aspettarci. L'affetto dei nostri compagni di viaggio, che con noi percorrono
le strade della Shoah è balsamo di rara efficacia.
Ora ci attende Auschwitz. Siamo di fronte a quel cancello con la sua
scritta tanto nota e tanto infame e traditrice: arbeit macht frei. Liberi?
Da chi, da che cosa? Neanche di morire da uomini. Perché pidocchi
erano per i nazisti - e purtroppo non solo per loro - i deportati e
da pidocchi dovevano morire: Zyklon B per una radicale disinfestazione
etnica e politica.
Ci salgono agli occhi le lacrime davanti agli scialli da preghiera,
agli abiti dei bambini assassinati, alle valige che rivelano le innumerevoli
strade della tragedia. Lasciamo la cantilenante voce della guida (anche
un po' falsa, per la verità, tanto da indignare Carlo) e con
Roberta ci avviamo al Memorial di Israele. E per ironia della sorte,
proprio nel luogo più disperato e disperante del campo ci viene
in aiuto un profondo moto di speranza e di felicità: tra le baracche
sciamano folti gruppi di giovani israeliani venuti allo stesso tempo
in doloroso pellegrinaggio e alla ricerca delle loro radici nella terra
dove nacquero i loro nonni e dove, oggi, la loro presenza è la
prova irrevocabile della sconfitta del criminale sogno nazista.
Salutiamo con il più intenso dei ricordi i fratelli italiani,
caduti qui e in tutti i campi, percorrendo la spirale così significativa
del nostro Memorial e lasciamo Auschwitz con negli occhi l'ultima visione
di un giovane aviatore israeliano che piange senza freni davanti ad
uno dei forni.
Eccoci a Birkenau. Non appena siamo davanti alla rampa della selezione,
davanti a quei binari lungo i quali si compii la tragedia di milioni
di donne, bambini, vecchi e giovani di tutta Europa, il nostro pensiero
va alle testimonianze, alle parole sedimentate in fondo al cuore che
di questo campo ci
hanno offerto la Tedeschi, la Millu, Primo Levi, e tutti i nostri compagni
passati per questo ineguagliato inferno.
Ci vengono alla mente gli ebrei del Ghetto di Roma, quelli di tutti
i Ghetti prima ancora che i nostri cari. E poi non ci sono forse altrettanto
cari Nedo, Teo, le sorelle Levi, Settimia, Piero, Arianna, Loredana
... Fa parte del gruppo di Carpenedolo un sacerdote, Don Paolo, e a
lui viene chiesto di celebrare la Messa davanti al monumento sacrario.
Don Paolo ci chiede, come segno di fratellanza, di suggerirgli una lettura
biblica particolarmente significativa per noi ebrei. Gli suggerisco
i passi del Deuteronomio che compongono lo Shema Israel. Don Paolo,
cattolico, reciterà a Birkenau la preghiera tra le più
pregnanti del mio popolo. Soprattutto sarà un fratello nella
giustizia e nella fede dell'uomo a rivolgersi anche per me ad un Dio,
sempre lo stesso, l'Unico anche se con nomi differenti.
Carlo, Roberta ed io non possiamo restare fermi ed assistere al rito.
Sopraffatti da ciņ che ci circonda, subiamo il doloroso richiamo che
aleggia nel campo: guardate e testimoniate. Con noi Silvana e.- silenziosi,
eppur agitati, passiamo dalle rovine delle camere a gas e dei forni
alle betulle che nascondono - e nascondevano - il laghetto delle ceneri,
dalle baracche alle fosse comuni, alla Sauna, sempre tuttavia schiacciati
dalla visione della rampa, sorgente di tutti gli orrori ove pare ancora
sentire le urla dei carnefici, i pianti e lo stupore delle vittime,
ove i nostri passi sembrano diventare sempre più stanchi, come
se il fango di tutto il mondo impedisse il cammino. Forse è qualcosa
per altri incomprensibile, forse lo è anche per noi, ma non lasceremmo
questo luogo. Solo la consapevolezza di non dover turbare la giornata
dei nostri amici ci risolve a dirigersi verso il pullman e con un sussurrato
"Shalom" lasciare Birkenau.
Il giorno dopo, mentre percorriamo la strada che da Cracovia porta alla
miniera di salgemma di Wieliczka improvvisamente ci troviamo davanti
un imponente monumento eretto dove esisteva un sotto campo di Majdanek.
Ci fermiamo, saliamo la scalinata (il monumento è su di una collinetta)
e cerchiamo di capire che campo fosse, cosa vi sia successo, il nome.
Sappiamo solo che vi lavoravano parecchi ebrei. Altro la guida non sa
dirci. Troveremo un altro campo di ebrei: nella miniera, cento metri
nel sottosuolo. Come a Dora ed a Ebensee, anche lì i nazisti
intendevano portare gli impianti della V2. Resta una enorme volta scavata
nel salgemma ed una Stella di Davide a ricordare altre vittime, un'altra,
poco nota, pagina della Shoah.
Tutto quanto vedremo dopo è marginale. Viva invece la partecipazione
dei nostri compagni di viaggio. Le cose viste, le emozioni vissute li
spingono a porre infinite domande, li sollecitano a capire. Per noi
la loro presenza è stata di grande conforto. Ed è stata,
almeno per me, una grande scoperta. Don Paolo, missionario, scampato
ad una tragedia che ha lasciato in lui segni profondi e a cui questo
viaggio ha dato nuova forza per percorrere il suo importante cammino;
Fausto, presidente della Casa per Anziani e imprenditore, cui premono
certamente più le sorti delle persone a lui affidate che non
i propri affari. Sua moglie Mary che riesce a dividersi tra la famiglia
e le lunghe permanenze in remoti e disperati paesi africani, per costruire,
mattone su mattone, scuole e ospedali.
Il tutto per spirito di solidarietà per chi è uomo come
noi, che non ha, che non puņ avere e che ha diritto ad avere. E tutti
gli altri di Castenedolo, vicesindaco in testa.
Questi amici, perché tali sono, hanno rivelato a me ed a Roberta
un mondo di cui sapevamo ma non conoscevamo. E proprio grazie a loro
siamo tornati dalla Polonia più forti. Perché ci siamo
resi conto che se Birkenau non tornerà più lo dovremo
anche a questi amici e a chi come loro è così forte negli
ideali di solidarietà, tanto da sfidare ignoranza, arroganza,
false dottrine, ingannevoli valori di una società corrotta quanto
debole. Grazie amici e un grazie a Silvana, amica e sorella di sempre.
Aldo Pavia
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