La carriera di un gerarca

Da feroce aguzzino della Gestapo a Milano ad agente della Cia e del governo di Bonn

L'ex comandante dell'Aussenkommando di Milano commenta il verdetto: "E' una montatura, sono un uomo piccolo così".

Un potente gerarca del Terzo Reich. Comandante dell'Aussenkommando di Milano, il commissariato della Gestapo, spietato "governatore" di San Vittore e dell'Hotel Regina, l'SS-Hauptsturmfuehrer Theodor Emil Saevecke aveva 32 anni quando arrivò per la prima volta nel cuore della Lombardia, culla della Resistenza. In diciannove mesi e diciassette giorni, dal settembre del '43 all'aprile del '45, tanto durò il suo regno di tremendo aguzzino, Milano visse una stagione di terrore e di sangue. Ex dirigente della Schilljugend di Rossbach, commissario della polizia criminale di Berlino, con le SS in Polonia, Libia ed in Tunisia prima che il colonnello Walter Rauff lo trasferisse in Italia, Theo Saevecke, classe 1911, è ora un tranquillo signore di 88 anni che vive a Bad Roithenfeld in Bassa Sassonia, pensionato dal 1971 dopo aver prestato i propri servigi alla Cia (1948) e aver percorso una brillante carriera nella polizia di Bonn. Strappato al suo quieto vivere, ricacciato con il peso dei suoi crimini in un passato che non aveva mai rimosso, davanti all'accusa dell'eccidio di piazzale Loreto, aveva reagito infastidito: "E' una montatura, quel magistrato italiano non ha alcun diritto di frugare nelle pieghe della mia vita. Sono già stato assolto molti anni fa dai tribunali inglesi e tedeschi. E poi rispetto ad altri sono un uomo piccolo così".Theo Saevecke è stato tutt'altro che una rotellina nel micidiale ingranaggio nazista e, una volta smascherato, aveva goduto di forti protezioni: il governo tedesco negli anni sessanta aveva aperto un'inchiesta contro di lui ma l'aveva poi chiusa senza conseguenze. Era il 15 marzo 1963 quando il consigliere di Stato Gerhard Wiedemann fu inviato in Italia per cercare di far chiarezza sullo scandalo che aveva spazzato la Germania come un uragano. Si trattò di un'istruttoria ricca di testimonianze che erano state qualche anno prima già raccolte da Giovanni Melodia, segretario generale dell'Aned, nella faticosa opera di ricostruzione della dolente memoria storica dei sopravvissuti. Una foto, ritrovata in modo fortunoso dal Comitato combattenti antifascisti di Berlino ed inviata a Milano per il riscontro, aveva contribuito a togliere ogni dubbio. Saevecke era emerso a tutto tondo dai ricordi delle vittime come un criminale che, direttamente o indirettamente, aveva coordinato ogni repressione a cominciare dalla strage di Meina sul lago Maggiore del 22 settembre 1943, quando 54 ebrei vennero massacrati da appartenenti alla Divisione corazzata "Adolf Hitler". Saevecke aveva potuto contare su una rilevante struttura poliziesca: venti ufficiali, sessanta sottufficiali fra cui il sergente Walter Gradsack, detto "il macellaio", il maresciallo capo Helmuth Klemm, il caporal maggiore Franz Staltmayer noto come "il porcaro", venti soldati oltre ad un nutrito numero di militi italiani addetti alla sorveglianza. Il modello dell'AK Mailand era simile a quello di Berlino: punti di forza, l'Ufficio III (SD) per la repressione partigiana ed operaia e l'Ufficio IV con la sezione B4 per la caccia agli ebrei gestita dal maresciallo Otto Kock (da non confondere con Pietro Koch, il massacratore italiano di Villa Triste). Saevecke non si era limitato a impartire ordini, spesso aveva preso parte ai pestaggi e alle torture. Le carte del processo propongono scenari agghiaccianti, l'elenco dei martiri è lunghissimo, da Poldo Gasparotto (caduto poi a Fossoli) a Vittorio Bardini, combattente di Spagna; da Manfredo Dal Pozzo ad Antonio De Bortoli; dai gappisti Alfonso Cuffaro e Alfonso Montuoro a don Achille Bolis; da Antonio La Fratta ad Erich Wacthtor; da Salomone Rath, sbranato da una cane durante un interrogatorio, a Tullio Colombo e Carlo Mallowan uccisi a bruciapelo, a Egisto Rubini, a molti altri ancora.
Basti il ricordo di Aldo Ravelli, agente di borsa, fermato il 23 dicembre 1943 per favoreggiamento degli ebrei, selvaggiamente percosso a San Vittore, poi trasferito nei campi di Bolzano-Gries, Mauthausen, Gusen. "Tutti i giorni - aveva rivelato Ravelli all'inviato di Bonn Gerhard Wiedemann - c'erano dei prigionieri massacrati di botte da parte dei marescialli dell'Hotel Regina. Klemm e Staltmayer mantenevano l'ordine con il terrore. Le bastonature erano così frequenti che per noi era una novità quando non c'erano dei massacri". Ai sabotaggi e alle azioni partigiane aveva risposto il Comando SS con una serie di stragi in un luglio di sangue: il 15 tre fucilati a Greco, il 20 altri tre a Corbetta, il 21 cinque fucilati e cinquantotto deportati a Robecco sul Naviglio, il 31 sei fucilati al Forlanini.Ma perché il 10 agosto la carneficina di piazzale Loreto se nell'esplosione del camion della Wermacht in viale Abruzzi due giorni prima non c'erano state vittime tedesche? Perché l'ordine alla Gnr e alla "Muti" di fornire un plotone d'esecuzione per quel gruppo di antifascisti innocenti? La risposta era nella paura: se da una parte i tedeschi temevano assai vicina l'insurrezione, i fascisti vedevano i gappisti di Giovanni Pesce in ogni strada. Piazzale Loreto con i quindici caduti strappati da San Vittore, Greco, Robecco e Forlanini, era stata la tappa di un piano preciso.
"All'escalation del clima insurrezionale - scrive Luigi Borgomaneri nel suo esemplare Hitler a Milano - deve corrispondere l'escalation del terrore prima che l'aggressività partigiana dia fuoco alle polveri della combattività operaia. Non a caso nell'arco di poco più di tre settimane si comincia con tre fucilati, poi si passa a sei ed infine a quindici". Una strategia che non avrebbe retto alla verifica del campo. La guerriglia partigiana, infatti, pur segnata da perdite dolorose, alla fine si sarebbe imposta. Mussolini, del resto, informato dell'eccidio di Milano, pare abbia commentato a caldo: "Il sangue di piazzale Loreto lo pagheremo molto caro".