La relazione del Prof. Luigi Cajani

Raccogliamo l'eredità degli studi di Vittorio Giuntella

L' ultima volta che ho parlato in pubblico sulla storia degli internati militari è stato circa un anno fa ed è stato a Roma, di fronte ad una platea di insegnanti di storia ed era con me il mio amico e maestro Vittorio Emanuele Giuntella; fu l'ultima volta che ci vedemmo perché morì due giorni dopo.
È un po'strano per me per la prima volta ripigliare questi temi senza più il suo consiglio, senza la possibilità di discutere con lui delle cose che sarei andato a dire e ho pensato di ricollegarmi a ciò che dicemmo allora assieme a proposito della trasmissione a livello storiografico e a livello didattico dell' esperienza degli internati militari italiani e più in generale del problema della deportazione dall'Italia durante la seconda guerra mondiale.
Giuntella come sapete è stato un grande animatore della ricerca storica su questo tema e della raccolta di memorie. Fu lui ad iniziare un'operazione della quale come storici dobbiamo essergli grati. In particolare il suo contributo sistematico iniziò nel '64 con la pubblicazione del primo numero di quei Quaderni del Centro di studi sulla deportazione e l'internamento che rappresentavano un grosso salto dal punto di vista culturale in quanto uscivano da un'ottica chiusa, da un'ottica di associazione.
Non erano il bollettino o la raccolta delle memorie dei membri di un'associazione; i Quaderni affrontavano globalmente, come spiega appunto nel titolo che apre quel primo numero, il problema della deportazione tenendo conto della deportazione dall'Italia degli ebrei, dei politici, degli internati militari e dei lavoratori civili: quattro esperienze diverse. Diverse nelle modalità, diverse nelle motivazioni che ispiravano i tedeschi ma a suo avviso così accomunate che era necessario a suo avviso parlarne in un contesto globale.
Questo è stato uno dei contributi fondamentali di questa rivista che è legata strettamente alla sua persona, alla sua opera e nella quale egli cominciò a pubblicare una documentazione allora irreperibile e praticamente inaccessibile agli studiosi.

Questa sua iniziativa è molto importante dal punto di vista politico-culturale oltre che storiografico; era fondamentale in quel momento raccogliere testimonianze non soltanto per evitarne la dispersione; ma anche perché raccogliendole si stimolava la pubblicazione di altre testimonianze.
C'era stata una primissima fase, subito dopo la guerra, di pubblicazione di ricordi di guerra che ben presto però si era esaurita e che invece grazie proprio alla sua opera attraverso questa rivista si rimise in moto proprio in quegli anni.
Ma c'era anche un altro motivo: a quei tempi (questo sembra strano oggi) gli archivi in Italia e non soltanto in Italia erano prevalentemente chiusi; l'unico modo quindi di cominciare a costruire una storia di questi fenomeni era una raccolta sistematica e comparativa delle testimonianze.
Tra le testimonianze raccolte da lui ce ne furono fra l'altro proprio alcune relative al campo di Dora che vennero pubblicate nel terzo numero dei Quaderni che uscì nel 1966. Questa documentazione era stata raccolta dall'ufficiale italiano Pietro Testa subito dopo la liberazione. Sono testimonianze raccolte in previsione di un riconoscimento, di un inserimento nella politica e nella cultura italiane dell'esperienza d'internamento che però non venne realizzato, e su questo Giuntella si soffermò a lungo anche in pubblico, fra l'altro nel presentare queste prime testimonianze su Dora nel numero terzo dei Quaderni.
Queste testimonianze si trovavano in copia quasi casualmente nell'archivio della sede romana dell'Anei (e dico "quasi casualmente" perché appunto non interessando nessuno e forse addirittura dando fastidio a qualcuno le carte raccolte da Pietro Testa vennero abbandonate in uno scantinato del Ministero della Difesa, e lì sono rimaste finché non sono andate disperse).

Ricordo che Giuntella insisteva sul perché l'esperienza degli internati militari dopo la guerra fosse stata messa da parte: diceva che dietro a questa scelta, a questo silenzio interessato c'era stata la volontà di non mettere in crisi gli equilibri che si stavano ricostruendo anche all'interno delle Forze Armate. Raccontava come paradossalmente l'esperienza degli internati militari italiani, di cui proprio le Forze Armate, proprio le gerarchie militari si sarebbero dovute vantare, presentandola come modello di fedeltà al giuramento e di disciplina militare, negli anni dell'immediato dopoguerra divenne "scomoda".
A questo proposito raccontava un episodio che poi pubblicò negli atti di uno dei più importanti convegni di storia degli internati militari, il primo convegno di Firenze nell'85, quando appunto venne chiamato dal Ministero della Difesa per rendere conto di ciò che aveva fatto in Germania. Egli venne interrogato da un ufficiale, leggo dalla sua dichiarazione,"Lei ha dichiarato, disse l'ufficiale, di non aver aderito alla Rsi e alle richieste di lavorare per i tedeschi. Perché l'ha fatto?" Io, disse Giuntella, credetti che per la prima volta qualcuno volesse elogiarmi. Spiegai le ragioni del mio rifiuto, e il Colonnello che mi interrogava soggiunse: «Se lei avesse aderito alle richieste dei tedeschi non sarebbe stato trattato meglio?» Certo, disse Giuntella, il quale espose le motivazioni della sua scelta sempre convinto, dice, che l'altro si sarebbe commosso.
A questo punto invece il Colonnello disse: «Proprio non capisco» e finalmente, dice Giuntella, «capii io. Cioè capii che non voleva capire», che non voleva accettare un'esperienza che forse metteva in discussione direttamente la scelta che il Colonnello che lo interrogava aveva fatto in quel periodo.
Intorno all'attività della rivista del Centro studi che era animata da Giuntella si mossero non soltanto delle iniziative di raccolta più o meno episodica di testimonianze, ma anche importanti lavori sistematici. Nel '66, lo stesso anno in cui vennero pubblicate le testimonianze su Dora, venne promosso un incontro di studio sui problemi storici, giuridici e medici della deportazione e dell'internamento. Poi, nel '68, venne realizzata un'inchiesta sull'8 settembre che ha fornito documenti molto interessanti sul comportamento degli italiani sui vari fronti.

E di nuovo, sempre a proposito di Dora, verso la fine degli anni '70 nel decimo Quaderno del Centro studi sulla deportazione e internamento sarebbero stati pubblicati i risultati di un questionario distribuito fra 21 superstiti che rappresenta un grosso contributo alla conoscenza dei fatti. Contemporaneamente si sviluppava sull'onda della memorialistica una ricerca storica sistematica grazie anche all'accesso che pian piano diveniva possibile a vari fondi archivistici: quelli della Croce Rossa Internazionale di Ginevra, i fondi archivistici tedeschi, i fondi archivistici italiani, ultimo fra i quali quello dell'archivio storico dello Stato maggiore. In questo contesto ha un ruolo fondamentale il convegno organizzato a Firenze dalla locale sezione dell'Anei nel novembre dell'85 i cui atti appunto furono pubblicati in quel volume dal quale rileggevo la testimonianza di Giuntella. Molto rapidamente la ricerca storica matura.
Nel '73 c'era stata una raccolta molto importante, cioè il libro curato da Piasenti Il lungo inverno dei Lager.
Poi l'Anei di Firenze pubblica testimonianze degli internati militari toscani nel volume Resistenza senz'armi che esce praticamente contemporaneamente al convegno dell'85.

Nel '90 esce a Bergamo a cura di Bendotti ed altri una serie di interviste a internati bergamaschi e di nuovo nel '91 questa ripetizione del convegno dell'85 a Firenze che dà luogo ad un volume al quale hanno contribuito alcune delle persone che sono qui, cioè Fra sterminio e sfruttamento.
Quindi possiamo dire che con la fine degli anni '90 il discorso storiografico sugli internati militari si è costituito in una produzione scientifica che costituisce un punto di riferimento sicuramente valido. In quegli anni Giuntella aveva ripreso il programma di lavoro enunciato nel primo numero dei Quaderni, appunto una storia della deportazione dall'Italia che comprendesse le varie figure degli italiani che erano stati deportati e l'aveva allargato ad una riflessione più ampia sul problema dei Lager, come strumento di potere tipico anche se non esclusivo di una serie di forme del sistema nazista. Questo volume, I nazisti e i Lager, è importante anche per alcune intuizioni che conteneva e che sono state poi sviluppate nel dibattito e nelle ricerche successive.

Uno dei punti che lui metteva in luce era la continuità della politica di sterminio nazista attraverso una serie di pratiche che normalmente venivano e talora vengono ancora oggi considerate come autonome, separate, anticipando discorsi che poi sono stati sviluppati da altri storici. Egli metteva in luce il rapporto fra l'operazione "Eutanasia" (l'autosterminio nei confronti di quegli stessi tedeschi che non erano utili, che erano vite "non degne di essere vissute") e lo sterminio degli ebrei e degli zingari.

In conclusione: alla fine degli anni '90 ormai il discorso storiografico sugli internati militari e sulla deportazione italiana, grazie a ricerche fondamentali, era arrivato ad alcuni punti fermi. A questo punto si pone il problema della mediazione didattica di questa esperienza, degli scopi e delle forme di questa mediazione. Più volte è stato segnalato che la manualistica italiana sia per la scuola secondaria inferiore che per quella superiore non affronta a fondo i temi della deportazione, i temi dello sterminio, ivi compreso lo sterminio degli ebrei, e che quando parla della Resistenza italiana spesso, anche se non sempre, ignora il problema degli internati militari; e quando lo cita non sempre o per meglio dire quasi mai (e questo vale anche per i manuali più recenti) mette in luce il valore storico e civile dell'esperienza degli internati che vengono accomunati a tutti gli altri prigionieri di guerra, laddove invece, anche se con attente distinzioni, l'esperienza degli internati militari è stata una piccola ma importante palestra per la futura democrazia.

Ora con il decreto del 4 novembre dell'anno scorso del ministro della Pubblica Istruzione il Novecento viene posto all'attenzione della scuola italiana, stabilendo che in terza media e nell'ultimo anno della scuola secondaria superiore si dovrà studiare soltanto questo secolo. Si tratta di una decisione sicuramente opportuna, nonostante abbia suscitato alcune perplessità soprattutto per il modo in cui è stata proposta, senza un'indicazione di contenuti che permettesse di ristrutturare il programma di storia.
Questo è il momento, l'occasione giusta per riaffrontare una tematica che finora non è stata trattata sistematicamente, ovverossia: cosa mettere in luce del Novecento, visto che si ha un intero anno a disposizione? Come parlare della seconda guerra mondiale? Come in questo contesto parlare dell'Italia, e come parlare della deportazione degli italiani?
Io credo che sia necessario un accordo, un lavoro concordato tra le associazioni e gli esperti di didattica della storia intanto per definire le fonti e le forme della mediazione didattica. In questo senso credo che bisognerebbe spingere perché l'esperienza della Regione Piemonte che ormai da molti anni organizza dei viaggi di studenti nei campi di concentramento venga allargata a tutta l'Italia, perché credo che sia una forma molto efficace di comunicazione con gli studenti. Questo naturalmente, anche ahimè per ragioni finanziarie, richiede una decisione politica, e una decisione politica può essere ottenuta attraverso una pressione concordata.
Accanto a questo c'è il problema del recupero sistematico delle testimonianze. E poi c'è il problema del discorso storiografico all'interno del quale inserire queste testimonianze. Il discorso storiografico non può che partire da una valutazione globale del nazismo e da un'attenzione alla dimensione della guerra nazista come guerra di sterminio, per far vedere chiaramente agli studenti che questa guerra rappresenta qualcosa di diverso rispetto alle guerre fra Ottocento e Novecento.

Si deve mostrare come la pratica dello sterminio non sia qualcosa di "mostruoso", che il nazismo non è qualcosa di mostruoso e basta, come spesso appare da molti manuali: con questa definizione si trasmette soprattutto l'idea di una specie di catastrofe naturale, come se questa esperienza non fosse stata strettamente legata alla storia e alla cultura europea. Questo atteggiamento può avere l'effetto deleterio di portare ad una specie di disimpegno: in fondo di fronte al terremoto non si può fare quasi nulla e così di fronte a certe esplosioni di irrazionalità, di bestialità chiamatele come volete, non c'è possibilità di un impegno politico attivo, soprattutto di un impegno politico preventivo.
Si tratta insomma di collocare il nazismo e la sua politica di sterminio all'interno di un filone più generale della storia europea. In questo contesto c'è il problema della Resistenza, delle Resistenze: un fenomeno di cui si sottolinea, ma non sempre, non in tutti i manuali, l'originalità, come qualcosa che passa attraverso le culture, le comunità nazionali, stabilendo una separazione che coinvolge su due fronti tutta quanta l'Europa. Tutti i discorsi che riguardano il Novecento hanno infine un riflesso diretto sul problema dell'educazione civica. Qui si apre un altro problema: è necessario spiegare che cosa significasse a quei tempi la cultura politica che è ben diversa da quella di oggi.
Ci sono cinquant'anni di dibattito democratico che comunque hanno modificato, talora senza che ce se ne renda conto fino in fondo, la visione del rapporto fra cittadino e stato. Bisogna a mio avviso mostrare in che misura è stato possibile fare un salto dopo vent'anni di diseducazione al dibattito della democrazia, e quindi anche in questo senso non solo valorizzare l'esperienza di Resistenza, l'esperienza di rifiuto, l'esperienza di rivolta, ma anche capire le incertezze; quindi in questo senso rivisitare l'esperienza della deportazione, l'esperienza dell'internamento aiuta a capire a fondo come si è articolato il sistema di potere nazista e come sono state prese delle decisioni da uomini concreti che si sono opposti a questo sistema di oppressione.