Confesso che l'altra sera al "Politeama" di
Arezzo ero molto emozionato, come mi capita tutte le volte che sto per
assistere a un film sull'Olocausto. La domanda che viene sempre in mente
in questi casi è se chi non ha vissuto direttamente l'orrore
dei campi di sterminio sia "autorizzato" a parlarne, come
se l'Olocausto fosse una sorta di "mistero sacro" che soltanto
chi lo ha vissuto in prima persona può tentare timidamente di
svelare. Sono note a tutti le polemiche nate dopo tentativi analoghi,
dalla Scelta di Sofia a Schindler's List: è sufficiente l'arte,
anche la più grande, per parlare dell'indicibile?
E confesso inoltre il mio imbarazzo nello scrivere a caldo queste note
di carattere assolutamente personale: criticando, come mi appresto a
fare, il film di Benigni, mi sembra di parlar male di Garibaldi. ...
E poi chi osa farlo è proprio un ebreo, che dovrebbe invece essere
grato al geniale comico toscano per aver affrontato con simpatia questo
tragico argomento (anche sulla "doverosa" gratitudine degli
ebrei si potrebbe parlare a lungo...). Comunque, prima del film non
ero certo prevenuto, sia per gli apprezzamenti positivi che avevo già
letto sia perché ho sempre stimato Benigni (e, intendiamoci,
lo stimo ancora, se non altro per la buona intenzione di fare questo
film).
Avendo avuto delle illustri e sbandierate collaborazioni, mi immaginavo
che dal punto di vista storico-documentario il film fosse pressoché
perfetto e soprattutto lo volesse essere. Mi sono invece subito imbattuto
in una strana superficialità appena si accenna alle leggi razziali
del 1938: dov'è quel terribile choc che tutti gli ebrei italiani
provarono del tutto inaspettatamente? Invece, Guido Orefice, il protagonista
del film, per niente toccato dalla tragedia (perché fu una tragedia!),
si sposa tranquillamente con una non ebrea e apre anche la sua piccola
cartolibreria.
Ma il peggio, come sappiamo, doveva ancora venire con l'8 settembre
e l'arrivo dei tedeschi. Quando tutti gli ebrei italiani cercarono disperatamente
un rifugio, Guido Orefice non sembra preoccuparsi, e quindi viene preso
in casa insieme al figlio Giosuè. La moglie sceglie per amore
di seguirli e tutti i tre salgono sul maledetto treno che li porta in
un campo di concentramento, anzi in un campo di sterminio vero e proprio
con tanto di camera a gas e forno crematorio. Sul viaggio infernale
nessun accenno. Orefice scende in buono stato e pronto a scherzare per
non rattristare il figlio (lodevolissima intenzione, ma vi prego di
credermi: dopo un viaggio del genere lo so da mio padre Schulim
che quel viaggio lo fece con la moglie Anna e la figlioletta Sissel
neanche Dio avrebbe potuto scherzare...). E poi come non ricordare
che le donne con i bambini venivano subito avviate alle camere a gas,
mentre gli uomini idonei diventavano schiavi. Dov'è nel film
l'"ex uomo" di Primo Levi, "che lavora nel fango, che
non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì
o per un no"? Guido Orefice, invece è sempre piuttosto lucido
e allegro, regala perfino il suo pane al figlio: Benigni e il suo sceneggiatore
non hanno mai letto nelle numerose testimonianze che anche i padri e
i figli si rubavano il pane pur di sopravvivere, che i tedeschi, oltre
a uccidere il corpo dei prigionieri, avevano loro ucciso anche l'anima?
Certo, poi Guido Orefice si "riscatta" morendo per salvare
la moglie e il figlio, la guerra finisce con la vittoria (per chi ha
potuto vederla) e del dopo non si dice più nulla. Tranne che
va bene così, che la vita è bella, che in fondo viviamo
nel migliore dei mondi possibili, a parte qualche tragica parentesi,
dove però con la buona volontà, il senso dell'umorismo
e una sana innocenza ce la possiamo tutto sommato cavare...
Anche mio padre, che da Auschwitz tornò solo (perché evidentemente
non fu così bravo da inventare un gioco per la sua Sissel), diceva
(per me misteriosamente) che la vita è bella. Ma che strazio
nella sua voce, quando lo diceva... Valenti critici cinematografici
diranno che il film è una favola a fin di bene e che quindi la
verosimiglianza non è importante... Ma allora io mi domando,
parafrasando una famosa frase: "Si possono scrivere favole su Auschwitz?"
E infine un'ultima osservazione: migliaia di ragazzi, che non sanno
nulla dell'Olocausto, attratti dal Robertaccio nazionale, andranno a
vedere questo film. Quale sarà la loro impressione?
Daniel Vogelmann
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