"Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!" Il piccolo Giosuè
(impersonato da Giorgio Cantarini) alza le magre braccia al cielo nel
grido del trionfo, ritrovando la mamma alla liberazione del Lager.
Nei cinema di tutta Italia centinaia di migliaia di persone hanno riso
e pianto vedendo l'ultimo film di Roberto Benigni, certamente il più
difficile e rischioso. Vista l'accoglienza riservata alla sua pellicola
dal pubblico e dalla critica, anche Benigni può ormai tirare
un sospiro di sollievo e lanciare il grido del trionfo: "Abbiamo
vinto!". Non solo la pellicola ha stracciato ogni record di incassi
per un'opera di questo genere, ma all'attore e regista toscano sono
giunte le felicitazioni anche dei critici più severi, oltre che
da molti superstiti dello sterminio nazista.
Perché, per chi non lo sapesse, tutto il secondo tempo del film
si svolge in un immaginario Lager, dove l'ebreo toscano Guido Orefice
(lo stesso Benigni) è deportato insieme al figlioletto Giosuè,
che incredibilmente rimane con lui. Nel tentativo di tenere il figlio
al riparo dall'orrore, il padre inventa un gioco pazzesco a uso e consumo
del bambino, "traducendo" la vita del Lager in altrettanti
improbabili passaggi di un gioco a premi, di quelli "da schiantarsi
dalle risate".
Il film corre lungo questo sottilissimo crinale tra il tragico e il
burlesco, spingendosi fino a mostrare le selezioni per le camere a gas,
il lavoro forzato, il fumo nero del camino dei crematori. Una favola
amarissima, che raggiunge l'obiettivo di raccontare con il linguaggio
della poesia l'orrore dei campi, e prima ancora delle leggi razziali
che anche nel nostro paese hanno discriminato, colpito, perseguitato
tanti italiani sotto il fascismo, fino al giorno in cui a migliaia sono
stati strappati dalle loro case e deportati sui carri per i Lager.
Figlio di un internato militare, Benigni voleva raccontare da anni
lo ha ricordato lui stesso l'orrore dei Lager.
L'ha fatto ora, con il linguaggio e la poetica che gli sono propri,
avvalendosi della consulenza di alcuni esponenti del Centro di documentazione
ebraica contemporanea di Milano che hanno avuto l'intelligenza e la
sensibilità di collaborare con lui intervenendo sulle scene,
sui costumi, sull'intera vicenda.
Qualcuno, anche tra di noi, ha per la verità storto il naso,
negando la liceità di un tentativo di questo genere: non è
corretto ha detto cercare di far ridere il pubblico mostrando
i Lager; non si può irridere il dramma di tanti milioni di caduti
dei campi. Altri hanno soprattutto apprezzato e noi siamo tra
questi l'intento del film di servire proprio alla causa della
memoria dello sterminio e dell'infamia delle leggi razziali fasciste.
Certo, La vita è bella non è un documentario costruito
su rigorose basi scientifiche. È piuttosto una sorta di favola
moderna, che va presa per quella che è, senza fermarsi a controllare
la veridicità storica di ogni fotogramma. Poteva un padre nascondere
nel suo "block", nel campo, un figlio di pochi anni? Perché
la moglie del protagonista (impersonata da Nicoletta Braschi), che non
è ebrea, ha nel campo la divisa a righe e il numero ma non il
triangolo colorato? Non sa Benigni che oltre agli ebrei c'erano milioni
di altri deportati che portavano sul petto triangoli di altri colori?
La discussione continua. E questo giornale sarà lieto di ospitare
oltre a quelli che pubblichiamo qui di seguito i commenti
di chi i campi di Hitler li ha conosciuti dal vero, e non soltanto al
cinema.
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