L'anagrafe dei deportati nei Lager nazisti
- e di tutti coloro che hanno vissuto una fase così decisiva
per la costruzione della democrazia nel nostro Paese come il fascismo
e la Resistenza - è tale da rendere sempre più necessario un
lavoro storico di recupero e di difesa di una memoria che, altrimenti,
rischia di essere perduta per sempre.
E' la memoria di chi ha subito in prima persona
la violenza nazifascista ma anche quella di chi ha vissuto accanto alle
vittime il dramma dell'arresto, della sparizione, dell'attesa spesso
inutile, del reinserimento nella società, della comprensione
di un "mondo fuori dal mondo". E' un contesto di difficile ricostruzione
di fronte a un silenzio molto lungo dei testimoni e degli storici (giustificato
il primo, assai meno il secondo). Così, il recupero orale della
memoria della deportazione è nato alla fine degli anni Settanta
con un ritardo difficile da colmare. Nondimeno, diverse ricerche sul
territorio - di cui il volume La vita offesa, curato da Anna Bravo e
Daniele Jalla, rimane il punto imprescindibile di riferimento - hanno
dimostrato le potenzialità insite nella memoria dei testimoni.
A margine di impianti rigorosamente storiografici sono anche nate ricostruzioni
il cui intento divulgativo si accompagna tuttavia a una difesa di un
patrimonio testimoniale collettivo che ne costituisce un merito inequivocabile.
In tale contesto si inserisce il recente volume Mai più. Testimonianze
e storie pavesi dai Lager nazisti (Modica Editore, Pavia 1997), curato
da Sisto Capra, giornalista della "Provincia pavese" e appassionato
ricercatore di queste vicende storiche. Si tratta di un libro che si
propone di essere il seguito e il complemento di una ricerca del 1981,
coordinata dallo storico Giulio Guderzo, e apparsa negli "Annali di
storia pavese" con il titolo i deportati pavesi nei Lager nazisti.
Era questo uno studio di ampie dimensioni e che realizzava una prima,
indispensabile raccolta di storie e dati che, seppure incompleti, aprivano
nuove prospettive di analisi sull'argomento. Ora il volume curato da
Capra aggiunge nuove informazioni e testimonianze in una cornice di
ricostruzione storica interessante e leggibile. Lo stesso Capra e la
studiosa pavese Maria Antonietta Arrigoni offrono un panorama della
realtà e degli studi sulla deportazione pavese densi di stimoli
e di osservazioni che potranno essere utili agli studiosi che vorranno
intraprendere percorsi di ricerca in una tale direzione. Mai più
si propone come un libro a più voci, dissonanti nello stile e
nel valore stesso delle testimonianze ma che, forse proprio per questo,
permettono di cogliere la varietà delle vicende, delle storie
personali, soprattutto aprendo un vasto squarcio sul campo di Bolzano,
luogo non propriamente definibile "di deportazione" ma certo un passaggio
che la maggior parte dei deportati ha conosciuto, una prima immersione
(o forse una seconda, se si considerano il carcere o i luoghi di tortura
nazista e fascista coma la pavese "Villa Triste") nella violenza, nel
rifiuto dei valori umani di civile convivenza, nella comprensione che
le regole comuni del diritto internazionale non valevano per i tedeschi.
Certo non si può sfuggire all'impressione che il volume privilegi eccessivamente
le storie del campo di Bolzano. Pur tuttavia, quella che appare una
consapevole scelta del curatore è probabilmente dovuta al fatto
che proprio queste storie mancavano a una ricostruzione più articolata
della deportazione pavese. Né si può dimenticare il tempo che
è passato e che necessariamente, ci ha privato e ci priva di
continuo dei testimoni. E ancora: non mancano comunque le vicende dei
campi più noti, come Mauthausen o Auschwitz, in un collage dove
vita quotidiana, resistenza e deportazione si accompagnano secondo quella
logica delle "storie di vita" che appare lo strumento più efficace
e valido per riannodare i fili di una storia individuale e collettiva
fatta anche di eroismi ma soprattutto di scoperta lenta e progressiva
di una propria distanza etica dal nazismo e dal fascismo, di una coscienza
forse prepolitica ma certo complessa nel suo dispiegarsi, e comunque
comprensiva di un percorso di vita che rifiuta analisi monocordi.
Vi è poi da sottolineare con particolare interesse il saggio
di Maria Antonietta Arrigoni che fornisce un ricco quadro sulla storiografia
della deportazione in ambito pavese; consente un primo bilancio dei
molti anni di ricerca; indica riferimenti bibliografici ed archivistici
di indubbio interesse; evidenzia limiti e prospettive degli studi con
evidente competenza. Conforta maggiormente che questa studiosa sia insegnante
di scuola media a Vigevano, dunque capace di comunicare con le più
giovani generazioni, quelle verso le quali sono ancora tutti da pensare
gli strumenti della trasmissione della storia della deportazione i cui
toni e la cui violenza devono essere mediati con attenzione e sensibilità.
Gli elementi positivi di questo volume di Capra non possono però impedire
di cogliere alcuni difetti, spesso minimi (per esempio, il Revier di
Auschwitz viene indicato come "clinica") ma in certi casi, a mio avviso,
strutturali. Mi riferisco in particolare alla scelta di inserire il
racconto di Sergio Borme sul gulag di Tito, vicenda senza dubbio drammatica
e condannabile come tutti i crimini contro l'umanità, in qualunque
parte del mondo essi vengano compiuti e qualunque colore politico abbiano.
Nondimeno, tale accostamento appare del tutto improprio e rischia di
portare acqua al mulino del revisionismo ignorante che tende a relativizzare
i crimini nazisti, paragonandoli a quelli staliniani o di derivazione
staliniana, con evidenti intenti politici e non storiografici.
Vorrei solo ricordare che lo sterminio nei Lager nazisti ha una sua
specificità data dal fatto che solo in questo caso noi troviamo
un altissimo numero di vittime, una pianificazione amministrativo- burocratica,
strumenti moderni e scientifici per lo sterminio e una ideologia che
armonizza tutto ciò. La compresenza di questi elementi è unificante
dei crimini nazisti e li distingue da altri i quali, inoltre appaiono
sempre mezzi e nonfini, come al contrario risultano nella Shoah.
Se comprendo la volontà del curatore di offrire un panorama il
più articolato possibile della realtà pavese durante la
seconda guerra mondiale, non posso però non rilevare la necessità
della distinzione e della chiarezza che devono accompagnare qualsiasi
percorso etico-storico, così come Capra si propone di fare e
che, in concreto - salvo questo "incidente di percorso" , riesce
a fare.
Bruno Maida
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