"Campo del sangue", di Eraldo Affinati

A piedi verso Auschwitz alla ricerca di un perchè

Segnalato come uno dei migliori libri dell'anno dalle giurie dei premi Strega e Campiello, "Campo del sangue" si distingue nettamente dalla gran parte della produzione editoriale sui campi di sterminio.

Non è una testimonianza di un sopravvissuto (l'autore ha 41 anni), non è il saggio di uno storico. E' piuttosto il resoconto dettagliato di un viaggio, di un pellegrinaggio vero, fatto per gran parte a piedi, insieme a un amico. Una lunga marcia di avvicinamento alla ricerca di troppi perché, sull'onda delle molte letture sulla deportazione e lo sterminio nazista. Un viaggio, come lo sono sempre i pellegrinaggi veri, fondamentalmente alla ricerca di sé, delle proprie radici, delle ragioni per le quali si vive su questa terra. Un libro ricco, intenso, scritto con una prosa colta, ricercata e ugualmente emozionante, nella quale le mille citazioni di Primo Levi, Semprun, di Borowski, di Bettelheim e di tutti gli altri autori che si sono cimentati nei loro libri nella ricerca e nella spiegazione dei Lager non costituiscono un orpello, un appesantimento, quanto piuttosto un arricchimento. Tanto che alla fine sembra che non una voce soltanto, ma dieci, cento ci accompagnino in questo viaggio che ha una lentezza e una profondità inconsueta in questi frenetici tempi moderni. Del libro riportiamo l'ultima pagina. Una scelta anomala che speriamo ci sarà concessa. Non si tratta, in questo caso, di scoprire "come va a finire" la storia. Quella, purtroppo, la conosciamo già.

Eraldo Affinati, Campo del sangue, Arnoldo Mondadori Editore, 1997, pagg. 194.

 

Il coraggio di guardare il giardino di pietra del tempo vissuto

"Non so quanto tempo era trascorso dal momento in cui avevo cominciato a fissare il muro fino a quando sono riuscito a staccare lo sguardo. Alzando gli occhi su verso le bandiere, ho visto, con la freschezza imbambolata caratteristica del primo risveglio, l'albero gigantesco lasciato germogliare apposta oltre i reticolati, inflagrante allusione alla cecità della natura capace di crescere sempre, anche dove non serve, tra le pietre.
Qualcuno mi ha toccato le spalle: era la guardia polacca. Ricordo la barba mal fatta dell'uomo, i peli come spazzolini bianchi sulle guance, il collo pieno di rughe. Solo allora l'ho davvero considerato a fondo: estrapolato dal contesto in cui si trovava, avrei potuto crederlo un militare in congedo. Ha sorriso della mia distrazione. Il museo stava chiudendo: ecco perché, poco prima avevo visto il piazzale vuoto. Come nei parchi cittadini, alcuni guardiani, coi mazzi di chiavi legati alla cintura, andavano raccogliendo gli ultimi ritardatari.
E' stato lui ad accompagnarmi verso l'uscita senza chiedere niente: calzava scarpe da ginnastica, la camicia aperta sul collo, sentivo il suo respiro grosso procedere in cadenza accanto al mio. Sarà nato proprio alla fine della seconda guerra mondiale, nelle primissime schiere dei reduci di pace: non ho avuto il tempo di chiedergli neppure il nome.
Siamo sfilati fra i Block in perfetto silenzio, spalla a spalla, come lavoratori che hanno esaurito gli straordinari. Ho pensato: questo è il corpo del Novecento, il campo del sangue, il vero giardino di pietra del tempo che abbiamo vissuto. "