"Sono un assassino" di Calel Perechodnik

Il memoriale-confessione di chi toccò il fondo

Sono un assassino?

Calel Perechodnik "Sono un assassino" Feltrinelli. L. 25.000

 

Perechodnik era un giovane borghese ebreo vissuto in una città della provincia polacca, Otwock. Nel 1941 si arruola nella polizia ebraica del ghetto della sua cittadina, evitando così di finire in un campo di lavoro e con la speranza di salvare la vita alla moglie ed alla figlioletta. Finirà invece per consegnarle ai nazisti, accompagnandole addirittura al treno che le porterà alla camera a gas. Ovviamente in preda ad un drammatico senso di colpa, scriverà un memoriale-confessione che, oggi, dopo cinquant'anni viene integralmente pubblicato in traduzione italiana. Prima di addentrarci in una lettura critica mi preme evidenziare alcuni fatti a mio parere anomali per non dire sospetti. Il primo è legato al sottotitolo di questa edizione italiana: "Autodifesa di un poliziotto ebreo ". Poiché questo sottotitolo non esiste nell'originale che si trova nell'archivio di Yad Vashem, si deve dedurre che nasca da una interpretazione che si è voluto dare alla finalità per cui fu scritto. Cioè ad una volontà assolutoria e quindi ad una falsa proposizione dell'interrogativo del titolo. Posizione assolutamente insostenibile se si legge attentamente il testo. Infatti (vedere pagina 90) scrive Perechodnik: "So perfettamente che esiste una comoda giustificazione... Ciò equivarrebbe però soltanto a discolparsi, mentre io mi sono deciso a scrivere queste memorie non per giustificarmi, bensì per testimoniare la verità. " E questa affermazione appare più volte mentre mai viene cercata una scusa per giustificare ciò che è stato fatto. Altrettanto sospetto è che la più dura condanna a Perechodnik venga da intellettuali polacchi, con un filosofo così intransigente da definire il disperato protagonista quale: "membro di una classe di persone assai disprezzabile: un poliziotto ebreo del ghetto. " Tanta durezza nei confronti dell'ebreo non trova (guarda caso) un minimo riscontro critico nei confronti dei polacchi che certamente da questa testimonianza non escono raffigurati come il migliore dei popoli, almeno per quello che fu il comportamento complessivo durante l'occupazione nazista. Troppo comodo accusare gli altri per non dover guardare in casa propria! Ma lasciando la polemica, torniamo all'essenza del documento: una tremenda ma fondamentale testimonianza su ciò che quotidianamente accadde in Polonia. Sentirsi raccontare da un testimone come venivano assassinati gli ebrei per le strade, come venivano gettati in allucinanti fosse comuni, come percossi, come i bambini venissero strappati dalle braccia delle madri, come la morte fosse un gioco per gli aguzzini, è pratica dolorosa. E non solo per gli ebrei. Perechodnik racconta di cose che accadevano non nei campi di sterminio, ma per le strade, nelle città e nei paesi, nei boschi di betulle: insomma in luoghi non deputati all'orrore. E sotto gli occhi di tutti, di quei polacchi che, come ad uno spettacolo, andavano a vedere come morivano gli ebrei! Dice bene Erri De Luca: "Gli ebrei erano diventati selvaggina, i tedeschi erano i cacciatori e i polacchi furono i migliori cani da fiuto. Sapevano riconoscere un ebreo meglio dei tedeschi. ". E molti si arricchirono. Scrive ancora Calel che i polacchi nella primavera del '43 salivano in terrazza e sui tetti per assistere all'agonia del Ghetto di Varsavia bruciato dai tedeschi. Allora la vera domanda insita nel racconto di Calel non è quella se fu un assassino, bensì quella se l'intero popolo ebraico non fu coinvolto nella più grande trappola della storia. Non è forse la testimonianza del comportamento dei polacchi che dà fastidio e quindi di conseguenza il grande rigore moralistico che determina i giudizi senza appello dei loro odierni intellettuali? Un modo più sottile di comportarsi rispetto ai negazionisti ed ai revisionisti ma altrettanto squallido. Si condanna facendo finta che in Polonia in quei tempi tutto fosse, normale: bastava ribellarsi, non accettare, resistere, dire di no. Tutto facile. Soprattutto per un popolo, quello polacco, che assolve se stesso richiamandosi a quei pochi che, clandestini ai tedeschi come al loro popolo, azzardarono un gesto di aiuto. Isolati e senza ordini con il loro popolo richiuso a sacco sugli ebrei. Mi è lecita una domanda? Chi uccise il maggior numero dei fuggitivi da Treblinka? Vorrei ora cogliere l'aspetto saliente della testimonianza di Calel. Questa consiste nel racconto della genialità della macchina di sterminio tedesca, un sapiente e diabolico combinarsi di violenza e di ricatto, di astuzie e di brutalità, di uccisioni e di false liberazioni. Sostiene Hannah Arendt che il male era banale. Forse visto da fuori e dopo, seduti su di una comoda poltrona così può apparire. Sicuramente ciò che ha visto e raccontato il poliziotto ebreo tale non era e ciò che hanno vissuto gli assassinati con un colpo alla nuca e i gassati nei campi di sterminio, se potessero raccontare la loro tragedia, non parrebbe così banale. Ma impera questo vizio intellettuale: ridimensionare per tranquillizzare la propria coscienza. Ciò che è banale pone questioni banali. E quindi relativi problemi morali e soprattutto pochi problemi di coerenza tra idee e comportamenti. Il memoriale di Perechodnik pone troppi ed inquietanti interrogativi: meglio liquidarlo sotto il peso di facili e ultimative affermazioni di principio, giocando su velleitari e falsi principi morali. Tutti eroi per condannare una vittima del più bieco degli inganni. Resta tuttavia ciò che Calel ha scritto: "Povera nazione ebraica! Sei stata condannata allo sterminio dai tuoi nemici tedeschi, dai tuoi amici polacchi, dai tuoi figli snaturati e dai tuoi fratelli ebrei". Se questa è autoassoluzione!
Aldo Pavia