L'esile filo della memoria di Lidia Rolfi Beccaria

Da Ravensbrück un doppio ritorno

 

L. Beccaria Rolfi - L'esile filo della memoria Einaudi 1996 - L. 22.000
Bello e sorprendente, questo libro assomiglia alla sua autrice, cui già dobbiamo una raccolta ormai classica di memorie sulla prigionia femminile nei Lager nazisti (L. Rolfi - A.M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Einaudi 1978).
Partigiana nel cuneese, deportata a Ravensbüick, Lidia Rolfi racconta ora i suoi due ritorni, quello verso l'Italia che si conclude nell'agosto '45 e quello verso se stessa, che si prolunga negli anni del dopoguerra. La incontriamo all'inizio fra campi di raccolta, caserme, ospedali, mentre esce a poco a poco dal dormiveglia fisico e mentale, cova i suoi "pensieri piccoli", la voglia di casa, di un libro, di affetti, riscopre il sollievo delle lacrime - lei che ha sempre ripetuto che non servono a niente - e da quelle lacrime capisce di essere libera dall'ossessione del cibo e del sonno, libera dai tedeschi.
Ma si accorge anche che nella moltitudine di uomini in viaggio sulle strade della Germania - prigionieri, deportati, militari di tutti i paesi - le donne sono un problema. Lo è lei in particolare, finita in Lager senza essere ebrea, spesso scambiata per una lavoratrice volontaria o per una delle clandestine di varie nazionalità che seguono i prigionieri italiani. Lo è il loro insieme, una minoranza che non ci si è preparati ad alloggiare, assistere, mettere al riparo dalle violenze; che non si sa trattare se non come una massa in cui tutte appaiono uguali, perché tutte indistintamente "donne e basta".
Quando le deportate insorgono contro il comandante del gruppo italiano per imporre il loro diritto al rimpatrio senza distinzioni di sesso, in quella ribellione Lidia si riconosce, si ritrova e comincia a ritrovare la propria forza.
E' uno spirito che porta con sé in Italia. Ricevuta a pane e mele da infermiere inamidate, assordata da un prete comiziante sugli orrori del comunismo, investita a male parole da un controllore perché viaggia senza biglietto, si riscalda il cuore nell'accoglienza della famiglia e del paese; ma capisce che non potrà raccontare il Lager: "Tutti hanno avuto fame e freddo e sono stati sporchi almeno una volta, e credono che fame, freddo e fatica siano uguali per tutti". E nessuno ha mai sentito nominare Ravensbrück. Lidia si iscrive all'università, frequenta tutte le riunioni politiche, non va in chiesa, non entra in nessun partito, lavora per 100 lire al giorno alla Camera del lavoro. Quanto basta a farla diventare lo scandalo della famiglia. Quando torna a insegnare, deve scontrarsi con vecchi funzionari fascisti, sui libri di scuola trova al posto dei balilla una schiera di orfanelli poveri e buoni, al posto delle storie di guerra storie di santi; parte per la sua scuola in cima alle Langhe "pronta a violare subito la nuova legge scolastica dell'Italia libera". Infatti trascura le preghiere in classe, fraternizza con i genitori degli allievi, fa scuola serale agli adulti, legge troppi libri e giornali politici, si trucca, porta i calzoni, fuma, balla alle feste dei coscritti.
Per i bigotti di campagna, è un'anomalia. Probabilmente lo è anche per quel comandante partigiano che un attimo dopo esserle stato presentato le dice: "Deportata? Le partigiane si fanno uccidere, non si fanno prendere prigioniere".
Ad accoglierla e ascoltarla è la gente della frazioncina dove insegna, contadini poveri, in ogni famiglia un morto di guerra, partigiano, disperso in Russia, prigioniero. Sono gli altri ex deportati. E la madre di un compagno, la prima e a lungo l'unica a voler sapere cosa significava essere donna in prigionia. E' Monique, l'amica francese che ha contribuito a fare del Lager l'università di Lidia. Nel frattempo arrivano, portando la speranza di aver scacciato i fantasmi, l'amore, il matrimonio, un figlio; li troviamo all'ultima pagina, enunciati in tre righe. Raccontarli avrebbe richiesto un altro libro.
Questa è una storia personale che si tiene stretta allo scenario complessivo, anche se lo guarda con occhi severi; che non dimentìca in alcun modo la politica, anche se alla politica non appartiene mai completamente, anzi va a cercarla dove allora non usava. E' una via per capire cosa vuol dire ritorno per una donna prigioniera, e anche cosa è stato il dopoguerra per una ragazza ardita, individualista e solidale, già staccata dalle angustie della comunità d'origine, ancora lontana dall'antifascismo cittadino aperto e coltivato.
Lidia è morta il 17 gennaio, lasciandoci questa tranche autobiografica affollata di tanti personaggi diversi tenuti insieme con sapienza - era il suo modo di essere, che l'ha resa anima di progetti collettivi difficili; offrendoci questa scrittura nemica di ogni eufemismo linguistico e politico, dove non c'è una parola sprecata né una mancata - era il suo modo di raccontare, che ha portato in tante scuole, in tante occasioni pubbliche, in tanti discorsi fra amici.

Anna Bravo