Sono la figlia di un'ex-deportata politica italiana
nel KZ di Ravensbrück. Ero già stata a visitare il KZ nel 1969
con mia madre, Maria Arata, autrice anche di un diario della sua deportazione,
edito in Italia nel 1979 presso la casa editrice Mursia.
Sono ritornata a Ravensbriick il 23 aprile scorso
per rendere omaggio alle sofferenze di mia Madre, ora scomparsa e delle
sue compagne e per festeggiare l'anniversario della Liberazione.
Ho apprezzato il contenuto della Sua lettera indirizzata
agli ospiti, nella quale esprime la sua comprensione per il risveglio
dei ricordi che il ritorno nel KZ comporta sia per i diretti protagonisti
che per i loro familiari.
Ho ritenuto perciò, tornata in Italia,
di poterLe esprimere alcune osservazioni sull'organizzazione dei festeggiamenti
a Ravensbrück:
1) deploro che i
discorsi pronunciati dalle autorità tedesche nella Piazza dell'Appello
non siano stati immediatamente tradotti alla massa dei presenti, giunti
da tutti i paesi che hanno pagato il loro tributo alla deportazione
nazista.
Ancora una volta la lingua tedesca, come è
attestato in tutta la memorialistica Europeadella deportazione, ha assunto
nei confronti degli Haftlinge il sopravvento.
Come Lei sa, ed è documentato nelle ricerche
sul "trauma della deportazione" da illustri scienziati, il valore simbolico
ed evocativo della lingua tedesca in quel contesto, in quell'ora, in
quel giorno, in quel luogo non era eliminabile, anche se il sole risplendeva!
Non c'è stato rispetto per la Babele linguistica
degli Haftlinge, giunti questa volta come uomini liberi e portatori
di una propria lingua e di una propria cultura, tanto più che
il discorso della francese Rose Guérin è stato prontamente
tradotto in tedesco.
Non c'è motivo tecnico che possa cancellare
la sensazione di una opportunità mancata da parte dell'organizzazione.
Osservo inoltre che lo stesso monolinguismo tedesco
impera nel Museo del KZ di Ravensbrück e nel Bunker-Museo.
2) reputo che si debba considerare con
molta attenzioneanche la conservazione di ciò che appartiene
ormai alla storia dell'umanità: la conservazione del KZ deve
attenersi agli stessi criteri con i quali si mantengono e restaurano
i Beni Culturali: perciò mi sembrerebbero falsificanti la natura
del luogo le intonacature a bianco troppo vivo, le "ripuliture" o le
cancellazioni dei segni della storia, pur nella doverosa manutenzione
degli edifici.
Anche l'iconografia del Museo deve essere attentamente
sorvegliata: non si deve temere la crudezza delle immagini relative
alle condizioni delle deportate a Ravensbriick e preferire qualcosa
di più rassicurante.
Le donne che vestite di una linda uniforme, non
rapate, siedono alle macchine da cucìre del reparto "Sartoria",
non mi sembrano affatto rappresentative delle condizioni e delle vesti
delle deportate di Ravensbriick.
Di fronte a tali immagini addolcite, non è
troppo pessimista ritenere che tra qualche anno qualche revisionísta
potrà dire che Ravensbriick e altri KZ erano semplici campi di
lavoro forzato, come la storia dell'umanità ha talora già
conosciuto.
La migliore riconciliazione tra i popoli nasce
invece dal coraggio di guardare in faccia alla verità e la partecipazione
comune a un lutto nasce dall'accettazione della realtà di quel
lutto.
La ringrazio dell'attenzione e saluto cordialmente.
Giovanna Massariello Merzagora
professore associato presso la Facoltà di Lingue e Letterature
straniere dell'Università di Verona
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