"Esse sono tutte nostre madri e sorelle. Voi potete
oggi imparare a giocare liberi, sì! Voi forse non eravate ancora
nati quando queste donne hanno esposto i loro pur deboli e gracili corpi
come scudi d'acciaio lungo tutto il tempo del terrore fascista per voi
e per il vostro avvenire".
Con queste parole, incise su una grande lapide all'ingresso
del campo-museo di Ravensbrück, la poetessa Anna Seghers si rivolge al
visitatore.
Qui, a novanta chilometri a nord di Berlino, nel
Meclemburgo, negli anni 1939-1945 ben 130.000 donne e bambini di 20 nazioni
sono stati martirizzati dai nazisti, che dopo averli uccisi (10.000 anche
nelle camere a gas) ne hanno bruciato i "deboli e fragili corpi" nei forni
crematori.
Qui nel gelo, tormentati e frustati dalle SS, assillati
dalla fame e dalle malattie, senza alcun conforto materiale e spirituale
esterno, i deportati furono anche sfruttati nelle fabbriche della Siemens
di Berlino nell'attesa che per i "sommersi" la soluzione finale si attuasse
e le ceneri venissero gettate nel lago nel quale ancor oggi si specchiano
il crematorio e le baracche.
Ben pochi i "salvati" che pur in miserevoli condizioni
ebbero la ventura di assistere all'arrivo "tra i pini, sul terrapieno
che altre volte era nostro luogo di torture, di snervante lavoro, una
lunga fila di uomini a cavallo. Erano i russi, i nostri salvatori".
Con queste parole Maria Arata, matricola 77314 nel
campo di Ravenbrück, ricorda la liberazione avvenuta il 30 aprile 1945.
E prosegue: "Dopo alcuni minuti entrano trionfalmente
nella Lagerplatz! Eravamo finalmente libere... Nelle baracche apparentemente
vuote del lager ai nostri occhi si presentavano spettacoli inenarrabili.
Donne scheletriche che gemono abbandonate nei castelli in stato comatoso
o precomatoso... In altri letti giacciono già cadaveri altre donne
immerse nello sterco, sfinite dal Durchfall".
Così anche noi figli, indirettamente "salvati"
a 50 anni dalla liberazione del più grande campo di concentramento
e di sterminio di donne, ci siamo ritrovati alle cerimonie commemorative
che si sono svolte a Ravensbrück il 23 aprile 1995, organizzate dal Land
del Brandeburgo.
Celebrazioni a ricordo degli eccidi avvenuti, a
commemorazione delle vittime inermi ed incolpevoli e a monito per tutta
l'umanità.
Attualmente, arrivando da Furstenberg, ci si immette
in un viale immerso in un bosco nel quale si intravedono ville graziose
che furono un tempo abitazioni degli aguzzini SS, proprio a pochi metri
dal KZ.
Poco resta del campo originario e delle baracche
che lo componevano: è recente il vergognoso tentativo di abbattere
gli ultimi edifici interni al campo e di costruire un supermercato su
questi luoghi.
Al limite del piazzale è stato collocato
un monumento di toccante realismo e semplicità alle deportate,
come pure quello che, eretto su una colonna (opere di Will Lammert), si
riflette nelle placide acque del lago Schwed, a contrasto indicibile fra
la dolcezza e la pace dei luoghi e le crudeltà di cui furono testimoni.
Prospiciente il lago si erge intatto il crematorio,
all'interno del quale sono visibili i forni con le loro bocche spalancate,
terrificante memoria della sorte di decine di migliaia di deportati: domani
saranno ricoperte dei fiori e delle corone degli ex-deportati e dei loro
familiari, raccolti nel ricordo, mentre i religiosi ebrei diranno le loro
preghiere in riva al lago, oscillando nel movimento rituale.
Sul fondo del piazzale il muro-monumento dedicato
alle 20 nazioni da cui provenivano i deportati, è testimonianza
della imponenza assunta dal fenomeno- concentrazionario. Commovente la
visita all'imbrunire, nel silenzio pressoché assoluto, silenzio
reso assordante dalle grida ineludibili di quelle larve-fantasmi di donne
che 50 anni prima avevano popolato quei luoghi.
Una giornalista americana (Callaghan) annota nel
"Libro del visitatore" che uno zelante oste ci offre nella vicina Furstenberg:
"E' incredibile che in un posto così bello e in mezzo a persone
tanto gentili, siano accadute cose così terribili!".
23 aprile 1995
"Io ti accolgo come uomo libero": sono le parole
del poster commemorativo del Kazhed.
Fin dalla prima mattina sono cominciati ad arrivare
i pullman con le deportate superstiti: il piazzale si è popolato
della stessa Babele che popolava il Lager: polacche, russe, ucraine,
norvegesi, francesi, slovene, belghe, olandesi, israeliane, ungheresi.
Ciascun gruppo con il proprio vessillo, tutti ospiti del governo del Brandeburgo,
Inesprimibili il clìma, la tensione morale,
la ricerca continua, quasi affannosa, di contatti interpersonali per ricordare,
commemorare, narrare episodi, congratularsi nella reciproca convinzìone
del mìracolo della propria sopravvivenza.
Ne restano colpiti e coinvolti anche i più
giovani, i nostri figli, ai quali chiediamo la promessa di una presenza
vigile e salda, al prossimo cinquantesimo.
Sotto il tendone allestito per la ristorazione sono
attaccati ad appositi pannelli i messaggi più vari: ricerche di
persone, ricordi di episodi e inviti di giovani ricercatori alle donne
di Ravensbrück a partecipare alla raccolta di "storie di vita" da essi
progettati, così negli Usa come a Berlino. Qui
e là si levano da gruppi omogenei canti ora lieti ora dolenti di
sofferte memorie. Su tutti il "canto delle d portate di Ravensbrück" che
precede i discorsi ufficiali di commemorazione.
Gertrud Muller, presidente della Lagergemeinschaft
Ravensbrück ricorda le 130.000 donne e i bambini di Ravensbrück e conclude
con l'augurio che non vi siano più fascismi, altre Ravensbrück,
altre guerre.
Segue l'intervento di Rose Guérin, presidente
del comitato internazionale di Ravensbrück, che dopo aver ricordato le
vittime delle SS nei lager e ringraziato i liberatori, conclude con questo
imperativo: "Vigila con noi che fummo a Ravensbrück!".
Prende quindi la parola Manfred
Stolpe, primo ministro del Land del Brandeburgo: Ravensbrück fu l'unico
campo di concentramento per donne in Germania. I campi di concentramento
furono l'espressione di una perversa ideologia volta allo sterminio ed
al terrore.
Un campo di concentramento per le donne appare in
particolar modo disumano. E conclude: "State
certe, le vostre vite e sofferenze non sono state dimenticate a 50 anni
di distanza e non saranno dimenticate in futuro".
L'ultimo intervento è stato quello di Romani
Rose, presidente del Central Council of German Sinti and Rom: "Ravensbrück
è un importante luogo di memoria stofica e di dolore per il nostro
popolo.
Nel luogo in cui ci troviamo le deportate furono
torturate ed uccise per il fatto stesso di esistere".
La relatrice prosegue con un cenno a un capitolo
particolarmente odioso della deportazione a Ravensbrück: gli esperimenti
di sterilizzazione effettuati dalle SS e in particolare dal prof. Clauberg
sulle giovani donne: "Queste donne, anche se sopravvissute, rimasero marchiate
per il resto della vita fisicamente e psicologicamente".
Come infatti giustamente osserva Massimo Martini,
"Non sono bastati i lunghi anni del ritorno alla vita di tutti i giorni
per sanare le ferite profonde che la deportazione ha segnato nel fisico
e soprattutto nello spirito dei superstiti.
Essi sono dìversi, si sentono diversi. Non
sono più quelli di prima. Non lo saranno mai".
Questo lo si può leggere sul viso delle migliaia
di donne che ascoltano attente gli interventi di commemorazione.
Dopo la posa delle corone di fiori ai piedi del
muro delle Nazioni, fra le quali le corone dell'ANED, il pomeriggio viene
dedicato alla visita del Bunker, le cui celle oggi sono monumenti celebrativi
dedicati alle vittime di ciascuno Stato.
Quindi ci si reca al Museo della deportazione di
Ravensbrück, ricco e curato nell'allestimento: purtroppo l'impressione
che esso lascia è quella di una ricerca, forse anche inconscia,
di una attenuazione della realtà "vera" delle condizioni di vita
dei deportati.
Non sono presenti immagini particolarmente scioccanti,
mentre si vedono fotografie di donne ordinate, non certo scheletriche,
al lavoro alle macchine da cucire (appartiene forse tale iconografia alla
prima fase storica del Lager, nella quale venne impiantato uno stabilimento
industriale per la confezione di divise milìtari destinate all'esercito
tedesco?).
L'effetto è di un "revisionismo visivo" che
si è ritenuto doveroso segnalare con una lettera alle autorità;
appare di grande urgenza e di grande importanza la conservazione, come
bene culturale, dei Lager nelle città dagli stessi tedeschi definite
come "città del monito e del ricordo", soprattutto in quelle aree
(ex-DDR) nelle quali i mutamenti politici potrebbero determinare una "dismissione"
di memoria.
Giovanna Massariello Merzagora
Paolo Massariello
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