Lettere "dall'al di qua"
Così i compagni di Torino ricordano Elio Masante Caro Elio, ti scriviamo, intanto
per ripeterti che ci siamo rimasti di sale per il modo con il quale
te ne sei andato. D'accordo, a nessuno di noi superstiti piace essere
visti malandati. Anche ai crucchinazi, per quanto mal ridotti fossimo,
se mai ce l'avessero chiesto, se stavamo come stavamo, avremmo risposto
che la nostra era una scelta di vita. Tuttavia solo pochi giorni prima
ti avevamo visto: fisicamente eri lo stesso dei giorni del furore, baffi
compresi. In più il fiato corto, è vero, che però
non ti impediva di fumare. Anzi. Certo succede di morire anche ai superstiti
e quelli che restano, sempre di meno, visto che sono così fortunati,
spingono a più non posso il carro della testimonianza. Amen.
Detto questo facciamo un passo indietro. Da qualche anno ti eri trasferito
a Santo Dorningo. Per evadere, dicevi, lontano da tutto e da tutti.
Ma ti eri portato appresso il Triangolo Rosso, i dischi nostalgia dei
barrieranti piemontesi e neanche eri arrivato nelle Americhe che già
facevi il diavolo a quattro per vedere la Juve alla Tv. Poi avevi addirittura
messo su casa laggiù e ti abbronzavi con mare e sole a 30 gradi
ventilati, altro che quello schifo di baracca puzzolente, circondata
dalle onde dei fili spinati, dove tutt'al più ti arrostivano
il sedere venticinque volte con il tubo di gomma. Ti eri financo preso
una moglie, giovane assai, che ti ha dato anche un figlio, che è
e resta il figlio di un ex deportato di Mauthausen. Dunque niente di
nuovo: l'idea, quella di andare via, era la
stessa che avevamo nel campo. Poi ci è restata dentro. Con il
trascorrere degli anni è diventata quella di fuggire, dalle notti
che inseguono i giorni sempre più in fretta, infine di fuggire
persino da noi stessi. Però poi rieccole: le radici. E ci accorgiamo
che sono nel nostro Bel Paese. Salvo, s'intende quelle che abbiamo lasciato
nel Lager. E la nostra città è sempre meno distante da
Mauthusen di Santo Domingo. Così nel tuo caso era bastata un'ombra
sul petto, che forse non era granché, per farti ritornare. Stando
nell'al di là con la banda del borgo Aned (noi abbiamo bisogno
di credere che sia così) devi ammetterlo che il meglio di te,
figlio a parte, lo hai lasciato nel blocco della cucina della fortezza
di pietra, dove rubavi, rischiando la pelle, un po' di cibo per i compagni
più affamati e dopo la "rimpatriata", quando davi il massimo
di te, nei momenti che vivevi accanto ai ragazzi in visita ai campi.
Noi a sgolarci a parlare del peggio e tu, in fondo al pullman, a parlarne
un po' meno e a sorridere loro un po' di più. Perché si
sa, e tu lo sapevi bene, che i giovani non li dobbiamo soffocare con
i nostri racconti, ma far loro comprendere che la vita, dopo quel terribile
"tutto lager", ricomincia. Almeno per loro. Cos'altro augurarci reciprocamente
da questa all'altra parte del creato nell'accomiatarci, oltre al solito
vogliamoci bene? Dirti che ci vedremo presto? Non contarci. I "tristosi"
sono in penoso spolvero, non possiamo mica stare a guardare.
Prendi alcune tue frasi, questa per esempio: "Tanti cercavano di farsi una specie di coltellino, o il cucchiaio per mangiare la sbobba: trovavano un pezzetto di ferro e scavavano in un pezzo di legno, fino a che veniva una specie di cucchiaio. Neanche quello lo potevi avere, perché dovevi mangiare così, con la bocca o con le mani, come una bestia". Oppure quest'altra quando tu parli del campo di Ebensee e della vedova di Lepetit: " ... e lei appena finita la guerra ha comperato un lembo di terra... e lì ha fatto un monumento... è rimasto ancora quel pezzo di terra, intorno hanno fatto tutte villette, hanno "bonificato". Vedessi adesso ci sono gli uccelli che cantano, sembra un'oasi di pace. In mezzo c'è ,sto monumento a tutti i compagni che sono morti come suo marito". E con quel paio di tue testimonianze, per non parlare delle migliaia di altre, i revisionisti possono andare a stendere di corsa. Sia dunque chiaro ad entrambi che vi teniamo stretti nel nostro cuore assieme a coloro che vi hanno preceduti. Non soltanto, ma stiamo spesso in sintonia con la vostra memoria. Perché tu, Eugenia, rappresenti il simbolo dì una donna vincente che ha saputo convivere con la sofferenza e allo stesso tempo costruire un edificio fatto di affetti, di lavoro, di impegno civile. Con tantì ricchi arroganti in circolazione, il pensarti, fa proprio bene alla salute. E tu, Antonio, perché rimani l'uomo di antico stampo che è stato capace di portarsi appresso la propria fede politica fino all'ultimo istante; il che con tutti i frettolosi moderni voltagabbana che ci sono in giro, tu ci capisci, fa un bel ricordare. |