Intervista a Gianfranco Maris

di Ennio Elena

Su questi temi, che la tragedia nell'est delle isole Timor ha riproposto con crudeleevidenza, abbiamo intervistato Gianfranco Maris, presidente dell'Aned che, deportato a Mauthausen, della guerra ha vissuto di persona le atrocità e oggi è impegnato, proprio come presidente dell'Associazione, insieme a tutti gli aderenti, perché il loro ricordo sia un costante stimolo ad operare per la pacifica convivenza dei popoli.
 

Prima di tutto vorrei conoscere da te le impressioni e le considerazioni di un reduce dai campi di sterminio di fronte alle guerre ed alle violenze che si scatenano a mezzo secolo di distanza da una primavera di liberazione e di grandi speranze di pace.

Se è vero che l'aprile ed il maggio 1945 aprirono una stagione di grandi speranze di pace - l'ultimo dei campi di annientamento nazisti, Mauthausen, fu liberato il 5 maggio - è altrettanto vero che questa stagione si chiuse rapidamente, perché fu subito chiaro che la fine della seconda guerra mondiale non aveva realizzato nessuna conquista irreversibile di pacifica convivenza tra i popoli. Fu subito guerra fredda, infatti; e, con essa, furono guerre calde, a cominciare dal conflitto in Corea, dal quale si dipanò, senza fine, un filo continuo di vere e proprie guerre locali, che avviluppò tutto il mondo, senza soluzione di continuità.
Dalla primavera di liberazione e di grandi speranze del 1945 partì una lotta che coinvolse tutti i popoli, per difendere, per imporre la pace. Il disincanto fu imposto dai fatti, la lotta fu il supporto delle speranze e l'itinerario dell'impegno politico fu caratterizzato dalle condanne dell'armamento nucleare, dell'equilibrio del terrore, dei conflitti diffusi sul territorio di tutti i continenti per imporre nuovi equilibri e nuovo potere. I sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti non ebbero mai dubbi ed esitazioni nello schierarsi.
E non ebbero mai neppure stanchezza nello sdegnarsi, come oggi ancora si sdegnano all'aprirsi o all'acuirsi di nuovi coflitti armati.
Negli ultimi anni e ancor più di recente, nel Kosovo, per l'intervento Nato, si sono aperti scontri armati che inducono più acuti conflitti di coscienza per la presenza, in questi scontri, di ragioni nuove che motivano il confronto violento; ragioni cosiddette "umanitarie", perché ispirate anche a valori e principi superiori dell'umanità intera; ragioni vere, innegabili, indipendentemente dalla presenza, nello scontro, anche di ragioni di interesse geopolitico.
Per il Kosovo le ragioni e i principi superiori c'erano, ma la violenza dell'intervento, che colpiva tutti, come sempre e in tutte le guerre, evocava emozioni profonde anche nel mio animo; ma non potevo non vedere come la società umana non potesse ormai più tollerare genocidi criminali in nome di criminali sottoculture nazionaliste.


Della guerra del Kosovo sono state date diverse e contrastanti definizioni: giusta, ingiusta, umanitaria, inevitabile, definizione quest'ultima usata anche dal presidente Ciampi. Quali condividi?
Qualificare positivamente una guerra è una contraddizione di termini, perché nessuna guerra, mai, in assoluto, è stata giusta o umanitaria o inevitabile.
Per il Kosovo un diverso atteggiamento e l'assunzione delle proprie responsabilità da parte di tutti i paesi dell'Europa, con fermezza e tempestività, avrebbero consentito di evitare l'intervento Nato.
In difetto di ciò l'intervento assunse, per la criminalità di Milosevic, dei suoi generali e delle sue milizie private, il carattere della inevitabilità, pena la vergogna (ed il pericolo) della tolleranza e della accettazione del perpetuarsi, rinnovarsi, estendersi, qui ed ora, in Europa addirittura, dei prodromi di una criminalità etnica troppo prossima al genocidio e troppo prodromica al razzismo criminale di stato di tipo nazista per non allarmare i popoli ed il mondo democratico e non evocare gli spettri di quel sonno della ragione dal quale nascono i mostri.


E' cambiato qualcosa, dal processo di Norimberga in poi, nel diritto internazionale per cui si possa intervenire dall'esterno in quelli che vengono definiti "affari interni di uno stato sovrano" come appare la vicenda del Kosovo? E se la risposta è affermativa, in base a quali principi? Per dirla in termini in voga, oltre alla globalizzazione dell'economia c'è anche quella del diritto?
Sì molto. Lo stato sovrano, territorio chiuso nel quale nessuno può intervenire, in omaggio al principio dell'assolutezza di un potere interno "sacro ed inviolabile", è un istituto superato, appartiene ad un passato che non può più tornare.La seconda guerra mondiale non ha dato solo un messaggio astratto con il processo di Norimberga. Ha generato una organizzazione internazionale di tutti gli stati del mondo, che, nel tempo, è venuta ponendo principi etici nuovi, consacrati in vere e proprie norme giuridiche, che sono venute a far parte, in forza di leggi nazionali che le hanno recepite, dell'ordinamento interno positivo di tutti gli stati membri dell'Organizzazione.E sono sorti Tribunali internazionali per la repressione dei crimini contro l'umanità (per la ex Jugoslavia e per il Ruanda).
Non si tratta più soltanto di quote di sovranità oggettivamente rinunciate o perse da parte di ogni stato in relazione alla globalizzazione dell'economia, che crea oggettivi poteri di intervento, di veto, di condizionamento di ogni Paese nei confronti degli altri.
Si tratta di un nuovo diritto internazionale, i cui contenuti, accettati da tutti, creano, per ciascuno, vincoli e doveri. Certamente deve essere percorso ancora un lungo cammino, per pervenire alla determinazione delle condizioni,dei modi e dei mezzi per gli interventi necessari da parte della Comunità internazionale, ma non si può più, oggi, negare che il dovere di intervento esista già.
La criminalità liberticida e gli interventi criminali di Sukarto nell'est delle isole Timor e lo sdegno nel mondo e le diffuse richiese di intervento all'Onu stanno a dimostrare che il processo di crescita etica nella comunità internazionale è ormai inarrestabile e impone alla stessa comunità comportamenti di tutela dei popoli deboli e perseguitati.


I pacifisti italiani hanno accusato il nostro governo di aver violato l'articolo 11 della Costituzione il quale afferma che l'Italia non solo "ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli" ma anche "come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali".
Ritieni che sia un'accusa fondata?

Nell'ansia di trovare supporti legali al rifiuto dell'intervento Nato in Kosovo si è data una interpretazione forse troppo formale al 1° comma dell'art. 11 della Costituzione, la cui categoricità è sicuramente molto temperata dal 2° comma del medesimo articolo, il quale stabilisce che l'Italia consente a "limitazioni" della sua sovranità, proprio a proposito di guerra, quando tale limitazione è necessaria per assicurare la pace e la "giustizia" tra le nazioni.
Non si può ignorare che in questo secondo dopo guerra la protezione internazionale dei delitti dell'uomo, già avviata (e colpevolmente abbandonata nei fatti) nel primo dopo guerra, ha conosciuto una forte accelerazione.
L'ordinamento internazionale, che gode di una stabilità e di un prestigio maggiore dei regimi costituzionali interni, è stato ritenuto più idoneo per la tutela dei diritti fondamentali di tutti gli uomini in qualsiasi Paese.
Di qui l'adozione di convenzioni (Roma 4 novembre 1950), che sicuramente hanno consacrato l'internazionalizzazione della tutela dei diritti dell'uomo.
Non c'è spazio per invocare norme giuridiche che "vietano" interventi armati per la tutela dei diritti; ma - e questo è il punto - c'è spazio per denunciare che, dopo aver adottato norme per la tutela dei diritti dell'uomo, l'ordinamento internazionale non è stato capace di dotarsi dei mezzi per reprimere e per prevenire la violazione di queste norme da parte di singoli stati; tanto da dover accettare poi, nell'assenza di ciò, interventi di gruppi di Stati in forza di loro alleanze e nell'assenza di decisioni specifiche e di assunzione diretta di responsabilità dell'Onu.

A proposito dell'intervento della Nato in Kosovo, c'è chi dice che sia stato realizzato in ritardo perché di fronte alle imprese di Milosevic prima in Croazia, poi in Bosnia e infine nel Kosovo, c'è stata una Monaco lunga dieci anni. Condividi questo giudizio?
Certamente un elemento che giustifica le più forti critiche all'intervento Nato è proprio la tardività, la selettività e la contraddittorietà delle scelte adottate dai singoli stati nei confronti dei paesi responsabili di delitti contro l'umanità. Se dobbiamo giudicare dal passato, il quadro che ci si presenta è schizofrenico: qui si aiuta, là si condanna, qui si ignora il diritto, là si interviene.
Tutto ciò, tuttavia, se giustifica dubbi e critiche, non può portare mai ad affermare che l'unica condotta "giusta", nel caso di delitti contro l'umanità, consumati da parte di un Paese, sia quello dell'indifferenza della Comunità internazionale, come se si trattasse di "questioni interne", sottratte, per definizione, a qualsiasi iniziativa da parte del resto del mondo.
L'intervento è dovuto: si tratta di predisporre in via preventiva e generale, le condizioni ed i mezzi.


Perché è intervenuta la Nato e non l'Onu? E' il segno, preoccupante, di una crisi di questa organizzazione? E perché non è intervenuta l'Europa?
Non credo che sia segno di una crisi sopravvenuta in una situazione che avrebbe consentito all'Onu, nel passato, di comportarsi diversamente. E' un segno di impotenza, di inadeguatezza dell'organizzazione internazionale a dare risposte tempestive alle domande di giustizia e di tutela che ogni giorno provengono da tutto il mondo.
L'Onu porta, nelle sue strutture e nelle sue regole di comportamento, il segno del tempo in cui queste strutture e queste regole furono poste.
La base sociale dell'Onu è universale e l'elemento fondamentale dell'Onu è la centralizzazione dell'uso della forza, ma tale uso è affidato esclusivamente al Consiglio di sicurezza, che può agire esclusivamente con il consenso (o la non opposizione) delle superpotenze (diritto di veto).
Ciò ha precluso all'Onu di svolgere la propria funzione liberamente nelle zone di influenza di una qualsiasi delle superpotenze dotate del diritto di veto.
Non c'è dubbio che l'aprirsi della coscienza internazionale a valori che non possono più essere messi da nessuno in rapporto di eguaglianza con il mercato o con gli interessi, dovrà imporre una modifica delle regole che disciplinano e condizionano l'azione dell'Onu, soprattutto in relazione alla tutela dei diritti fondamentali delle donne e degli uomini di ogni Paese, ovunque situati, dentro o fuori dalle sfere di influenza di chicchessia.


Anche da parte di coloro che hanno approvato l'intervento armato in Kosovo si sono sollevate due obiezioni: la prima è che i bombardamenti hanno provocato anche molte vittime civili; la seconda è che con i raid della Nato Milosevic ha intensificato la "pulizia etnica" per cui i kosovari che si volevano aiutare sono stati invece danneggiati.
Ritieni, anche alla luce della tua esperienza di partigiano e di deportato, che siano obiezioni fondate?

La prima obiezione è fondata, la seconda non mi sembra. Sempre i delitti contro l'umanità sono stati intensificati nel corso delle guerre; in assenza delle quali, tuttavia, non sarebbero comunque mai cessati ed avrebbero continuato, nella pace, a macinare uomini e dolore, con calma e con continuità.
La pulizia etnica serba, senza l'intervento Nato, avrebbe compiuto la sua opera sino all'ultimo kosovaro di etnia albanese, come la soluzione finale degli ebrei sarebbe stata portata a termine dai nazisti anche senza l'intervento degli Alleati nella seconda guerra mondiale. E' fondata invece la prima obiezione, quella delle vittime civili serbe, che hanno rappresentato la più lacerante delle ragioni del rifiuto dell'intervento armato anche da parte di coloro che pure sentivano come intollerabili i delitti quotidianamente compiuti da Milosevic e dalle sue milizie. E' il problema dei problemi, che pure deve essere risolto: non essere paralizzati, internazionalmente, dal dovere di compiere interventi, per proteggere e salvare, dal timore e dall'angoscia di dover travolgere e coinvolgere nei conflitti tanti altri innocenti. Evidentemente troppe cose non furono ragionevolmente ponderate nell'intervento Nato. Troppe scelte furono prese nell'ansia di raggiungere un risultato positivo nel minor tempo possibile. Ciò non deve più accadere.

Che giudizio dai del variegato movimento pacifista italiano, che è andato da Rifondazione comunista alla sinistra dei Ds, passando per il Papa e anche per Scalfaro? Ha avuto dei limiti e se sì quali?
Ben vengano e siano sempre presenti, in ogni tempo ed in ogni luogo, i più complessi e variegati movimenti pacifisti. Sono segno di passione, di intelligenza, di democrazia. In tutti questi movimenti era, tuttavia, ben presente la condanna incondizionata dei delitti "etnici", del nazionalismo squallido e intriso di violenza, del rifiuto del pluralismo nella vita delle comunità. Questo è un grande segno: deve avanzare una nuova consapevolezza, la necessità, cioè, di andare oltre i vecchi messaggi della "tolleranza", per attingere a messaggi nuovi, in positivo, che indichino che l'umanità, per essere felice e giusta, deve pervenire al riconoscimento della intrinseca ricchezza, per tutti, delle differenze, che ci sono e che "debbono" esistere.

Si può, malgrado tutto questo, continuare ad avere fiducia che sia possibile, se non eliminare, ridurre notevolmente i conflitti nel mondo? Per ritornare alla prima domanda: coltivare quelle speranze di pace?
La volontà di pace e di giustizia ha sempre fatto proseliti. Ogni giorno nascono donne e uomini che a questi traguardi non solo guardano con speranza ma che in essi si riconoscono come impegno e scelta di vita. E, ancora più positiva, è una sempre più complessa e strutturata visione delle condizioni per raggiungere questi traguardi. Un tempo, in una vicenda come quella del Kosovo, avrebbero facilmente trovato accoglienza le proposte di spartizione del territorio e di prospettive di indipendenza.
E' positivo che oggi si sia pervenuti a capire che soluzioni siffatte non fanno che rinviare gli odi che si combattono ad altri tempi futuri, perché le cause di essi non solo economiche, ma soprattutto culturali permangono.
E' positivo che, anche nell'ambito albanese, la denuncia, con sdegno e vergogna, delle violenze albanesi nei confronti dei serbi, succedute alle violenze dei serbi nei confronti degli albanesi, non si siano fatte attendere. E' unanime il riconoscimento che le violenze e le crudeltà patite non giustificano le ritorsioni. Debbono valere i principi superiori per i quali si è combattuto.
L'avvenire degli uomini, dei popoli, mai potrà essere determinato dalle ritorsioni e dalle vendette, le quali non pareggiano e non compensano mai nulla. Non esistono portatori sani di fascismo e di nazionalismo, i quali, vinte le azioni più crudeli e criminali del fascismo e del nazionalismo, possano poi instaurarne edizioni nuove che non siano prodromiche a sicure altre future violenze e ad altri futuri delitti. L'intervento Nato in Serbia tendeva a liberare non solo gli albanesi dal genocidio, ma tutti, albanesi, serbi, croati, macedoni, montenegrini, turchi, rumeni, bulgari, cattolici, ortodossi, musulmani dall'odio etnico o religioso o nazionalista; a liberarli, comunque, dall'incapacità di capire e di sentire le differenze come un valore, come una ricchezza della futura umanità.
E' nella costruzione di questi "valori" e di questi "principi superiori" che si riassume il nostro impegno politico.