Il mio intervento parte dalla
particolare angolazione di chi ha vissuto nel Lager di sterminio di
Birkenau.
Queste osservazioni, pertanto, si riferiscono esclusivamente alla
seconda parte del film di Benigni.
L'argomento "Lager" ha presentato attraverso gli anni una sua evoluzione:
prima si sono avuti gli scritti di memoria e di testimonianza, poi
ha preso corpo l'indagine storica, oggi si affermano anche i racconti
d'invenzione, ossia la fiction, e ciò avviene non solo nella produzione
scritta, ma parallelamente anche in quella cinematografica. Non sarò
certo io a negare al cinema di essere un'importante mezzo moderno
di espressione e di comunicazione, sicuramente molto vicino al pubblico
giovanile. Esiste però una grande differenza fra testo scritto e film,
perché la narrativa si basa sulla parola, il film sull'immagine. La
parola si deposita nella coscienza del lettore o dell'ascoltatore
lentamente, accompagnata dalla riflessione; l'immagine è rapida, travolgente,
non da respiro, si impone perché viene dall'esterno.
Quale è in proposito la mia situazione psichica?
Superato ormai da molti anni I'incubo del sogno ricorrente e il risveglio
di terrore all'ora fissa, sta tuttora depositato nel mio
subcosciente un patrimonio di immagini provenienti dal Lager, paragonabili
a fotogrammi di un film. Sono immagini senza colore, perché noi vivevamo
in un mondo che di colori era privo. Cielo grigio e tempestoso, un
mare di fango dove i nostri zoccoli rimanevano incollati, una distesa
a perdita d'occhio di baracche e di fili spinati, un'umanità avvolta
in stracci anonimi e spenti. L'erba, allora, (come ricorda il titolo
di un libro) non cresceva ad Auschwitz; all'esterno per noi c'era
il lavoro nelle cave di sabbia. Neanche qui colore.
Con questo immaginario interiore io devo fare i conti ogni volta che
vengo a contatto con uno scritto o un film sull'argomento. Plaudo
all'intuizione di Spielberg che ha girato Schlinder's list in bianco
e nero e si è fermato al ghetto senza toccare il Lager. Rifiuto, invece,
quanto scrive Vincenzo Cerami, sceneggiatore del film (Tuttolibri,
12-3-98): "E' forse giunto il momento di vitalizzare l'immaginario.
Bastano, si domanda Cerami, i vecchi documentari originali in bianco
e nero a lasciare un segno forte nella coscienza e nella memoria dei
giovani?"
Il film "La vita è bella" rappresenta il superamento della realtà,
lo sconfinamento nell'irrealtà, anzi nella surrealtà, perché
il tessuto del film - si insiste - è una favola, la trasposizione
della realtà in un prodotto d'inimaginazione. Si, ma per diventare
una vera favola, come dice Alberto Cavaglion (v. L'indice, marzo 1998)
la strada della fiaba bisognava percorrerla tutta, fino in fondo,
procedendo per vie allegoriche e decisamente più allusive e oniriche".
Nella favola filmica di Benigni il tragico è sfumato in una opportuna
caligine. "Nulla è taciuto - aggiunge Anna Maria Bruzzone (Triangolo
Rosso, n° 2, aprile 1998) - non l'operazione Eutanasia, le selezioni,
le camere a gas, i forni crematori". Queste allusioni sono percepibili
da un pubblico non preparato dall'informazione letteraria? Sono percepibili
dai giovani che alle soglie del duemila - come riconosce Cerami -
dei campi di concentramento sanno poco o niente?"
La "favola" di Benigni, a parer mio, rappresenta un reale pericolo:
minimizza il vero contenuto dell'informazione e, quale fonte più facile
e gradevole, rischia di imporsi ai ragazzi come documento. E Benigni
si da alacremente da fare, visita le scuole (il Liceo Mazoni a Milano),
parla agli studenti, cura che il film venga pubblicizzato con inviti
a presidi e professori a condurre le
scolaresche al cinema, per quali interessi pratici mi astengo dall'indagare.
"E' la prima volta - afferma Benigni con artificiosa magniloquenza
- che parlo di questa storia, e per me è un'emozione che mi allarga
il polmone, mi spacca il costato, mi sventra la costola, mi riempie
il cuore tutto di un dolce sentire ( ... ) perché, come dicono le
sacre scritture, quando la risata sgorga dalle lacrime si spalanca
il cielo". E altrove: "Perché far ridere di una cosa tanto tragica,
del massimo orrore del secolo? Ridere ci salva, vedere il lato surreale
è divertente, e riuscire a immaginarlo ci aiuta
a resistere".
Si direbbe che nella seconda parte del film Benigni sia con fatica
alla continua ricerca della risata.
Eccone un esempio: c'è un personaggio al quale critici e spettatori
non hanno, a parer mio, dato spessore. E' il capitano medico Lessing
(l'unico personaggio tedesco ad avere un nome), che va e viene da
Berlino e compare fuggevolmente in camice bianco dinanzi all'alloggiamento
degli ufficiali.
Che sia medico non c'è dubbio, cosi è chiamato anche nella sceneggiatura
(pag. 168 -sceneggiatura ediz. Einaudi).
Se è vero, come si è detto, che il film non tace alcun orrore del
Lager, chi rappresenta questo medico ufficiale delle SS? Perché è
stato introdotto nella trama narrativa? I medici tedeschi non prestavano
servizio nell'ospedale del campo; a curare (si fa per dire) i deportati
erano destinati altri medici pur essi deportati. I medici SS, invece,
lavoravano nel Blocco degli esperimenti ed usavano noi come cavie.
Uno dei più tristementi famosi è il dottor Mengele, responsabile di
accecamento di decine di
bambini per l'assurda pretesa di cambiar loro il colore degli occhi
da bruno in azzurro (gli occhi azzurri erano considerati tipica caratteristica
della razza ariana), e di aver ucciso un numero imprecisato di gemelli
per studiarne il comportamento nella fase della morte. Queste le ossessive
ricerche di Mengele; quale invece l'ossessione del dottor Lessing,
l'oscuro personaggio emblematico del film di Benigni-Cerami? Trovare
a tutti i costi la soluzione dei rebus verbali! Altro caso: sulla
soglia del comando tedesco compare un'aufscherin; come una qualsiasi
casalinga indossa il grembiule da cucina, ma lo indossa sulla divisa
militare.
Leggete nel libro "Il rogo di Berlino" della Schneider, che cosa rappresentava
l'uniforme, per queste fanatiche donne naziste.
Qui siamo invece dinanzi a un classico esempio di buonismo italiano
con aspirazione consolatoria. Pensate che queste sorveglianti ci schiaffeggiavano,
ci insultavano chiamandoci "alte Huren" vecchie puttane e "Scheisse"
e, quel che era peggio, ci spogliavano continuamente del cucchiaio,
del pettine, delle forbicine per noi indispensabili strumenti vitali,
che nascondevamo sotto le vesti dopo esserceli procurati al mercato
nero del campo col sacrificio di razioni di pane.
Si è parlato di comico e pare sia diventato d'obbligo confrontare
Benigni con Charlot. Mi domando se il discorso di Benigni, improvvisatosi
traduttore del caporale nazista regga al confronto col sublime grammelot
di Charlot nel film "Il grande dittatore". Qui la satira è ottenuta
con suoni privi di senso, intonazioni, urla, gesti utilizzati per
parodiare la parlata di Hitler, che oggi, nella realtà trasmessa dalla
televisione, ci chiediamo come abbia potuto affascinare e inebetire
milioni di tedeschi.
La comicità di Benigni offre anche spunti accettabili; ma talora scade
nel grottesco e in esibizioni burattinesche. A questo punto, però,
mi fermo, perché qui entriamo nel campo del gusto personale e non
pretendo certo che altri prediligano, come me, l'umorismo ebraico
che per secoli ci ha aiutati a vivere, anzi a sopravvivere, divenendo
celebre nella letteratura e nei canti yiddisch, in cui il tragico
si fonde veramente col comico, senza pericolo di smorzature o di ridimensionamenti.
Quel che è certo, comunque, è che al Lager ci si deve accostare a
voce bassa.
Giuliana Tedeschi