Erano gli ultimi tempi, prima della liberazione
di Dachau. Il Blocco 23 era ricolmo di deportati ormai "inservibili":
nessuno veniva impiegato per un qualsiasi lavoro all'interno od all'esterno
del campo. Era un Blocco considerato quasi un "Revier", chiuso in se
stesso, dove morivano moltissimi ogni giorno di sfinimento o per il
tifo. I cadaveri venivano ammucchiati di fronte alla quarta "stube",
sul retro del Blocco 21.
Le giornate trascorrevano in un oblio
interminabile: la solita fame, il solito freddo, le solite "conte" e
le solite percosse dei capi-blocco, spesso senza nessuna ragione, e...
la solita brodaglia, una volta al giorno. Veramente, per molti di noi,
i morsi della fame non si avvertivano più, come se ci fossimo abituati
al digiuno.
Anche le zuffe per leccare i rimasugli di zuppa, al fondo dei bidoni,
non avvenivano più. La distribuzione della cosiddetta "minestra", fatta
di rape secche e da altri ingredienti non identificabili, in una brodaglia
giallastra avveniva solo per coloro che ancora potevano andare a ritirarla,
assieme alla fetta di pane nero (ogni giorno più sottile). lo, sempre
più spesso, non riuscivo ad alzarmi dalla cuccetta del secondo ripiano
del "castello", proprio in fondo alla quarta stube.
In quel periodo, erano tanti i moribondi che le SS, bontà loro, non
ci obbligavano a restare tutto il giorno all'aperto, fuori dalla baracca,
come invece era sempre avvenuto. Tempo prima dividevo il giaciglio con
due compagni russi che però morirono, prima l'uno e poi l'altro durante
la notte. Ricordo che il primo venne rimosso da alcuni compagni e portato
fuori al solito posto, mentre quando morì il secondo me lo lasciarono
lì accanto per quasi due giorni. Successivamente prese posto accanto
a me un giovane italiano di Roma, non solo perché s'era fatto spazio
ma anche perché nella stube (come del resto in tutto il Blocco 23) c'erano
pochissimi italiani, forse due o tre.
Questo ragazzo, dopo un paio di giorni senza dire una parola, cominciò
a parlarmi spinto forse da un estremo bisogno di comunicare ed esprimere
tutta la sua angoscia interiore. Così mi disse che era ebreo e che si
chiamava Piperno di cognome e che abitava a Roma, nel ghetto, con la
sua famiglia. Mi disse che era stato portato a Dachau da Auschwitz,
dove avevano eliminato entrambi i genitori ed una zia.
Simpatizzammo subito, forse perché aveva intuito che il suo racconto
mi aveva commosso e rattristato. Ricordo che, con le lacrime agli occhi,
ci abbracciammo istintivamente, come fratelli. Quel ragazzo, penso,
non avrà avuto più di sedici-diciassette anni ed era malconcio come
la maggior parte di noi, ma vedendo il mio stato di estrema debolezza
che, spesso, non mi permetteva di scendere per mettermi in fila per
la distribuzione del rancio od anche solo per andare ai "bagni", cercò
d'aiutarmi in ogni modo. Quando constatò che neppure col suo aiuto potevo
alzarmi per andare a prendere la mia razione di "minestra" lui, uno
sconosciuto, decise di aiutarmi al massimo. Sarei rimasto senza la possibilità
di alimentarmi, anche perché a nessuno era consentito ritirare razioni
altrui. Così Piperno (non ricordo assolutamente il suo nome) mosso da
pietà umana s'impose e m'impose una soluzione incredibile: della sua
razione m'imboccava la parte "solida" ed egli si accontentava della
brodaglia. Così, e solo così, riuscii a sopravvivere fino al giorno,
non lontano, della liberazione, mentre lui, proprio pochi giorni prima,
ebbe un ben diverso e triste destino.
Quest'angelo custode, questo ragazzo ebreo, fu fatto affluire nell'Appelplatz
assieme alla maggioranza degli ebrei, dei russi e degli ex nazisti tedeschi
ancora presenti nel Lager e fatti partire sotto scorta in piena notte
per un destino senza ritorno. Così, l'amico Piperno fu inghiottito nella
notte.
Luigi Mazzullo
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