Il problema della memoria
dei crimini che gravano sul passato di una Nazione implica la questione
della scrittura della storia, ovvero di ciò che del passato fa storia
e fonda, in senso ampio, gli orientamenti sociali e culturali del presente.
La storia ufficiale e le idee dominanti che circolano, soprattutto attraverso
i media, rispetto al passato di una Nazione ne strutturano una immagine
che tende ad essere omologante e ad eleggere un "oggetto unico" di
memoria che non corrisponde affatto alla somma algebrica delle singole
memorie in questione (i diversi soggetti coinvolti e le tappe storiche
che vi si riferiscono).
I discorsi ufficiali sul passato sono pertanto verità parziali, spesso
tentativi di autoglorificazione in cui è possibile riconoscere le idiosincrasie
e le contraddizioni, i sintomi di verità ben più grandi e inquietanti,
rimossi da una memoria illusoriamente portata a circoscrivere la barbarie
nell'altro e ad evitarne l'integrazione nella nostra soggettività storica.
La memoria di una Nazione si compone dunque di un "racconto" costituito
da parti "scelte" del passato: alcuni eventi vengono esaltati, altri rimossi.
Queste "parti scelte" non sono pertanto frutto del caso, ma sono strutturate
e interpretate in modo tale da tracciare le grandi linee di quella che
possiamo chiamare una " singolarità nazionale", la delimitazione
cioè dei confini di significato entro cui è possibile inscrivere il giudizio
sul passato e su quanto ad esso è legato.
In questa prospettiva, ad esempio, la specificità del fascismo italiano
nella vicenda delle persecuzioni razziali durante la Seconda guerra mondiale
non è stata definita, nel dopoguerra e negli anni successivi, sulla base
della valutazione dei crimini commessi dagli italiani, ma è stata costruita,
al contrario, operando un confronto con il fenomeno della deportazione
e dei Lager nazisti. Eleggendo come "oggetto unico" della memoria della
persecuzione razziale il Lager tedesco, questo confronto (insieme alla
diffusione del mito degli "italiani brava gente"), ha banalizzato e relativizzato
i crimini compiuti dall'Italia fascista ed ha costruito così una "singolarità
nazionale" forgiata sul modello del "maleminore".
Se negli ultimi anni una parte della storiografia italiana sta criticando
e tentando di smontare questo modello del "male minore" tramite, ad esempio,
lo studio delle misure di internamento adottate dal governo italiano prima
dell'8 settembre del 1943, quindi nel periodo precedente l'occupazione
tedesca, prendono forma tuttavia altri modelli di banalizzazione e tentativi
nuovi di cancellazione dei crimini italiani. Pensiamo a questo proposito
al fenomeno recente di diffusione del "mito delle foibe" operato
da una parte del mondo intellettuale e politico italiano: il giudizio
sul passato non si fonda qui sul confronto con un "male peggiore", ma
è emesso addirittura tacendo sulle proprie colpe e, di conseguenza, ignorando
l'ineludibile concatenazione storica degli eventi. Si assiste infatti
in Italia ad una attitudine generalizzata a parlare del "caso foibe"
(l'uccisione di italiani da parte dei partigiani di Tiro nel periodo a
cavallo della primavera del 1945), decontestualizzando questa vicenda
da quella più generale dell'aggressione nazi-fascista della Jugoslavia
nella primavera del 1941 e dalle successive politiche di "pulizia etnica"
intraprese dal governo di Mussolini: l'internamento delle popolazioni
delle zone jugoslave annesse all'Italia in campi di concentramento ed
altre misure ad esso collegate come ad esempio il saccheggio e l'incendio
di villaggi e l'uccisione di ostaggi.
Intessuto attorno al silenzio di questi crimini, il "mito delle foibe"
rappresenta un vero e proprio tentativo di costruire un discorso "restauratore"
riguardo alla vicenda del dominio italiano sul territorio jugoslavo occupato
e all'atteggiamento fascista nei confronti degli "allogeni", un discorso
che, riconoscendo all'Italia solo lo statuto assoluto di "vittima" e non
quello, antecedente, di "aggressore", mira a ristabilire una presunta
integrità e una dignità storica impossibili da provare. Le polemiche suscitate
dalla costruzione del "caso foibe" - che si trova attualmente ad un crocevia
di giudizi storici, politici e giudiziari - rendono particolarmente importante
ristabilire l'intera verità storica, precisare cioè quali sono state le
responsabilità dell'Italia che pesano sul destino subìto dalle popolazioni
slovene e croate prima e durante l'occupazione della Jugoslavia.
La sua vicenda è emblematica del modo in cui questi crimini siano praticamente
assenti dalla topografia della nostra memoria nazionale e di come il silenzio
in Italia contrasti con la memoria viva dei luoghi e delle popolazioni
coinvolte.
Il campo di Arbe fu aperto nel luglio del 1942 ed ospitò complessivamente
circa 15.000 internati tra sloveni, croati, anche ebrei. In poco più di
un anno di funzionamento (il campo cessò di esistere il 1 settembre del
1943), il regime di vita particolarmente duro causò la morte di circa
1.500 internati.
La memoria delle vittime (in maggioranza slovene) di questo campo italiano
è custodita oggi da un grande cimitero memoriale sorto su una parte del
campo e sul luogo che, già all'epoca, ne costituiva il cimitero. Al suo
interno una cupola racchiude un rnosaico, opera dello scultore Mario Preglj,
che simbolizza la lotta eterna dell'uomo per la conquista della libertà.
Poco lontano dal complesso commemorativo alcune sporadiche baracche, inglobate
nei terreni coltivati di privati cittadini, sfuggono allo sguardo del
visitatore distratto. La loro presenza è però ancora in grado di rievocare
in modo autentico il progetto inquietante che l'Italia fascista aveva
riservato alle popolazioni della Jugoslavia assoggettate al suo dominio.
Nel settembre di ogni anno, nell'anniversario della liberazione, questo
"luogo della memoria" ospita una sentita cerimonia a cui partecipano
rappresentanti delle Repubbliche slovena e croata e nutriti gruppi di
ex internati. A queste
cerimonie né la società civile, né il governo italiano sono mai stati
presenti. Il silenzio da parte italiana è stato finalmente rotto il 12
settembre di quest'anno, in occasione del 55' anniversario della liberazione
del campo: la Fondazione Internazionale "Ferramonti di Tarsia" ha
partecipato alla manifestazione con una propria delegazione, ed ha apposto
all'ingresso del cimitero una lapide il cui testo, scritto in italiano
e in croato, dichiara per la prima volta da parte italiana, sullo stesso
luogo teatro di questo crimine. le colpe dell'Italia. Il testo della lapide
recita:"In memoria di quanti, negli anni 1942-1943, qui finirono
internati soffrirono e morirono per mano dell'Italia fascista".
Il significato dell'iniziativa - che si inserisce nel quadro più ampio
delle attività che la Fondazione Ferramonti ha dispiegato in questi anni
per promuovere la ricerca e il recupero della memoria dell'internamento
civile fascista - è stato precisato dal presidente della Fondazione Carlo
Spartaco Capogreco nel discorso che ha accompagnato lo scoprimento della
lapide.
L'intera cerimonia si è svolta in un clima carico di emozioni e di ricordi
ancora vivi, sottolineati dalla commozione con cui, come un comune "giorno
dei morti", gli ex internati e i familiari presenti depositavano fiori
e corone sulle tombe delle vittime. A ragione Milan Osredkar, sloveno
ed ex intrnato a Gonars, ha definito quello di Arbe "il più grande cimitero
sloveno". La presenza italiana ha suscitato grande soddisfazione tra le
autorità politiche e i rappresentanti delle varie associazioni presenti
alla manifestazione, segno, forse, della speranza che il lungo silenzio
italiano su questo passato tristemente comune venga finalmente messo in
discussione e che anche questa verità storica entri nel quadro del dibattito
attuale sui rapporti tra l'Italia e la Jugoslavia negli anni della Seconda
guerra mondiale.
Il 55' anniversario della liberazione del campo è stato anche l'occasione
per la presentazione di due pubblicazioni che il croato Ivo Kovacic e
l'ex internato, e già ministro sloveno ai tempi di Tito, Anton Vratusa
hanno dedicato alla vicenda di Arbe. Questi volumi vanno ad arricchire
la già fiorente bibliografia sulla storia di questo campo di internamento
dell'Italia fascista a cui la storiografia italiana ha, finora, prestato
poca attenzione. Ricordare la tragedia del campo di Arbe e riconoscerne
le responsabilità italiane non è però solo un problema storiografico o
di politica internazionale, ma anche di sensibilità civile. L'atto pioniere
dell'apposizione della lapide va interpretato in tal senso come un gesto
dirompente per il "risveglio" della coscienza nazionale atrofizzata,
come una denuncia della mancata elaborazione della memoria (collettiva
e storica) degli italiani di questo crimine dell'Italia fascista.
Teresa Grande
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