Con altri compagni di prigionia (fra i quali l'amico Augusto De Zordi)
entrai nel campo di concentramento di Bolzano (nome ufficiale del Lager
Polizeiliches Durchgangslager Bozen - Gries) verso la fine del mese
di novembre 1944.
Provenivo da Feltre ove avevo trascorso una quarantina di giorni da
incubo nella caserma Zannettelli dopo il mio arresto a Mugnai di Feltre
a causa della delazione di un partigiano che non seppe resistere alle
torture. Ebbi la sventura di cadere nelle mani del Maresciallo delle
SS Gugliel-
mo Niedermajer, suddito tedesco, ma nativo di Appiano (Bolzano). Il
Niedermajer, noto come Villy, seminò la morte nel Feltrino. Nel
dopoguerra venne più volte processato in contumacia da tribunali
militari per assassinii, torture, ruberie e impiccagioni. Fu condannato
a decine di anni di reclusione. Venni immatricolato e rinchiuso nel
lager nel Blocco E destinato ai "pericolosi". In questo enorme
stanzone i tedeschi avevano ammassato circa 300 persone.
Il nostro Blocco confinava col Blocco F (riservato alle donne) dal quale
era separato da una tramezza di legno. Arrampicandosi sugli ultimi ripiani
dei castelli era possibile comunicare con loro, in quanto il divisorio
non era molto alto. Cosa molto utile per noi perché, essendo
le donne addette ai lavori esterni, potevano uscire dal campo per recarsi
alla galleria del Virgolo, ove erano installate le macchine della ditta
Imi che produceva cuscinetti a sfere. Clandestinamente ricevevano pacchi
con cibo ed indumenti dai loro e nostri familiari che poi passavano
a noi del Blocco E. Qui rividi con gioia Luigia Zannivan, che aveva
diviso con me i giorni di prigionia a Feltre.
Alla Zannivan e ad un'altra mia vecchia amica, Idalma Rech della valle
di Seren del Grappa, debbo molta gratitudine per aver alleviato un poco
i morsi della fame nel periodo del mio internamento nel lager di Bolzano.
Nel Blocco E ritrovai due miei paesani: Angelo Maccagnan e Pasquale
Zanin, partigiani come me, arrestati nel medesimo giorno. Anche loro
seguirono la mia stessa sorte: prima a Mauthausen, poi a Gusen II. Pasquale
Zanin, matricola 115782, morì a Gusen il 28 aprile 1945; Angelo
Maccagna ebbe la fortuna di rientrare a casa, dopo la liberazione del
campo da parte degli anglo-americani il 5 maggio 1945, ma morì
alcuni mesi dopo.
Tutti nel Blocco eravamo consci che la nostra prigionia a Bolzano sarebbe
stata di breve durata: ci aspettavano i campi di eliminazione in Germania.
Quindi un solo pensiero martellava continuamente il nostro cervello:
fuggire ed evitare così i "trasporti". L'occasione
di fuga ce la fornì un giovane ingegnere ligure che studiò
il lager e ne ricavò una piantina con precisione meticolosa.
Radunò parecchi di noi, a parer suo i più "fidati":
14 veneti, 12 liguri e qualche lombardo. Angelo Maccagnan ed io ci unimmo
a questo gruppo.
Il piano di evasione consisteva nello scavo di un pozzetto dietro un
"castello" appoggiato alla parete del nostro Blocco. Da qui
partiva una galleria di circa 5 metri, alta 50 cm, rafforzata con traversine
di legno (ricavate dai castelli), seguendo le regole dell'arte mineraria,
che ci avrebbe portati in aperta campagna, al di là del muro
di cinta. A piano ultimato, il lavoro fu immediatamente iniziato e si
prolungò per quasi tutto il mese di dicembre.
A turno si doveva scavare, stando ventre a terra, proprio come le talpe.
La durata dei turni di lavoro era di un quarto d'ora ciascuno. Lì
sotto ci si sentiva mancare il respiro ma tutti noi lavoravamo con accanimento
(usando le più attente precauzioni al fine di attenuare il rumore),
sperando che quel rischio e quella fatica venissero premiati con la
libertà. L'amico Pasquale Zanin, al mio invito a collaborare,
fu costretto a rifiutare perché soffriva di claustrofobia. Ricordo
anche l'ex tenente degli alpini di Calalzo (di cui non rammento il nome
e che sarebbe poi morto a Gusen): quanta volontà mise nel tentativo!
Era inesauribile, rimaneva sempre molto a lungo nel "buco",
molto più a lungo del turno prestabilito. Davvero avrebbe meritato
che la fuga fosse andata a buon fine! Si scavava con qualsiasi oggetto:
cucchiai, ferri, e specialmente con le mani, riuscendo a compiere veri
miracoli. Il terriccio di riporto trasportato con un gavettino
veniva nascoto nei pagliericci e gettato nella latrina del Blocco
e scaricato direttamente in un ruscello. Al termine del turno di lavoro,
alcuni compagni stazionavano di guardia sui castelli che sovrastavano
il tunnel, canterellando e fischiando per coprire i rumori che provenivano
dal sottosuolo.
Il nostro lavoro procurava lamentele da parte di chi ignaro di ciò
che stava accadendo - trovava in quei giorni la latrina sempre occupata.
Tutto procedeva secondo i piani del nostro bravo ingegnere. Dopo una
ventina di giorni la nostra fatica poteva dirsi terminata: secondo i
calcoli avevamo sorpassato il muro di cinta ed era sufficiente scavare
ancora mezzo metro circa per guadagnare l'esterno del campo e quindi
la sospirata libertà.
Fu deciso che l'evasione sarebbe avvenuta la notte di Natale. Motivo:
le SS, durante le festività, avevano l'abitudine di ubriacarsi,
quindi la sorveglianza era notevolmente inferiore.
Avevamo inoltre stabilito di tirare a sorte chi dovesse uscire coi primi
che avrebbero avuto maggior probabilità di riuscita. Uno dei
primi ad uscire sarebbe stato un vecchio partigiano di Trento che (pratico
della zona ci avrebbe guidati per strade oscure e accompagnati per un
tratto. Egli raccomandava a noi tutti che una volta liberi
non dovevamo assolutamente chiedere aiuto agli altoatesini: si correva
il rischio di essere denunciati. Fra di noi regnava l'ottimismo, ma
qui successe l'imprevisto. Un anziano del Blocco ignaro della
fuga si accorse che un pagliericcio invece dei soliti trucioli
di legno contenva terriccio. La cosa lo insospettì e
frugando fra i castelli scoprì l'ingresso della galleria
sotterranea. Imprencando, disse che avrebbe confessato tutto al capoblocco
e che non voleva incorrere in eventuali rappresaglie. Vane furono le
nostre minacce: andò dal capoblocco e confessò tutto.
Il comando delle SS fu informato: improvvisamente entrò il comandante
del campo (ten. Tith) accompagnato dal capo disciplina, il sergente
Hans Haage. Quest'ultimo ordinò di rimuovere i castelli, rimanendo
stupefatto e ammirato dalla perfezione dell'opera. Poi ad alta voce,
ci avvisò che fuori ci aspettavano le mitragliatrici. Era la
vigilia di Natale del 1944. Tith e Haage ci fecero uscire tutti sul
piazzale del campo e, con tono minaccioso, dissero che si dovevano presentare
i colpevoli. In un primo tempo nessuno obbedì all'invito. Rimanemmo
parecchie ore immobili sull'attenti. I due comandanti ripeterono il
loro ordine.
Nel frattempo alcuni furono individuati e portati nelle celle del campo
(ove, pare, sono stati fustigati a sangue). I nostri aguzzini, non soddisfatti
dell'esiguo numero di colpevoli, rinnovarono la minaccia e aggiunsero
che se non se ne fossero presentati altri avrebbero punito
l'intero Blocco.
Noi responsabili questo bisogna ammetterlo indugiavamo a
farci avanti.
Un senso di vigliaccheria ci tratteneva: credo fosse giustificabile.
Poi, costretti da chi temeva per la sua sorte, ci decidemmo. Per porre
termine a questo supplizio, concordammo che una decina di noi doveva
farsi riconoscere e tirammo a sorte. Sfortunatamente fui uno dei primi.
Ricordo che invitai Angelo a seguirmi e tentennando alla fine accettò.
Ce la cavammo con una buona dose di schiaffi, quindi ci riportarono
nel Blocco. Eravamo disperati, sfiniti e semiassiderati e, per di più
a digiuno dal giorno prima. A questo pensarono le ragazze del Blocco
F. Generose, ci offrirono la metà delle loro razioni, tolte dai
pacchi ricevuti da casa. Aiuto e sostegno lo ebbi, quel giorno, soprattutto
da Luigina Zannivan, che si dimostrò affettuosa come una sorella.
Un po' di conforto lo trovammo anche in don Narciso Sordo, un prete
di Trento, che celebrò la messa al campo il giorno di Natale.
(Deportato a Mauthausen, morirà anch'egli a Gusen II).
Le punizioni per il tentativo di evasione non si fermarono solo all'interno
del campo di Bolzano, ma ebbero un seguito. Mi fu raccontato a Mauthausen
da chi partì con il "trasporto" precedente al mio (quello
dell'8 gennaio), che una volta stipati nel vagone salì
Lanz, una guardia del campo spietata e feroce. Con lui, un ucraino e
un SS. Lanz chiese ancora chi fossero gli esecutori materiali del tunnel
nel Blocco E. Non ottenendo alcuna risposta, si infuriò. Poi
tutti e tre, si lanciarono contro i deportati e accecati dall'ira
colpirono selvaggiamente i malcapitati più vicini con i
calci dei mitra. L'ucraino si accanì con la baionetta contro
Benito Fossano che ebbe la fronte spaccata.
Un certo Marchetti preso per il bavero da Lanz e stretto al collo
tra i due battenti della porta scorrevole del vagone venne quasi
strozzato. Anche il prete di Trento don Narciso Sordo e un certo Pinna
(che morirà anch'egli a Mauthausen), rimasero feriti per le percosse.
Al mio ritorno da Mauthausen ebbi modo di sapere attraverso una
testimonianza scritta che colui che aveva avvisato le SS del tentativo
di fuga nel lager di Bolzano, come premio del tradimento, aveva evitato
la partenza per la Germania.
Alla liberazione del campo, questi raggiunse Milano. In piazza del Duomo
scivolò battendo il capo sul selciato, perdendo la vita. Strano
destino il suo! I prigionieri del Blocco E furono deportati interamente
in Germania. L'80% di essi non fece più ritorno.
Testimonianza di Vittore Gorza deportato
a Mauthausen matricola 126227 raccolta dal nipote Franco
Ciusa nei primi anni del dopoguerra.
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