"Mia figlia Lalla è nata in Sardegna a Perdasdefogu il
7 gennaio 1943, perché eravamo lì in un campo di concentramento."
Quella di Rosa Raidic (Lacio Drom n.2/3, 1984) è una delle rarissime
voci di zingari testimoni della seconda guerra mondiale, una delle poche
testimonianze che riguardano l'internamento in Italia, sotto la dittatura
fascista, di un popolo sempre perseguitato e, anche per questo, ignorato
e dimenticato dalla memoria e dalla storia delle dittature nazifasciste.
Dello sterminio degli zingari si sa infatti molto poco, troppo poco.
Nonostante sia ormai appurato che, come gli ebrei, furono vittime della
persecuzione e dello sterminio razziali praticati dai nazisti in Germania
e nei paesi dell'Europa occupata, normalmente si tralascia la loro vicenda
o, nel migliore dei casi, se ne accenna in lavori che si occupano del
Terzo Reich o del sistema concentrazionario in generale includendoli
tra le vittime per poi tralasciare cause e conseguenze della loro persecuzione.
Questo anche a causa del fatto che per molto tempo dopo la guerra lo
sterminio del popolo zingaro non è stato riconosciuto come razziale
ma lo si è considerato conseguenza (quasi ovvia) di quelle misure
di prevenzione della criminalità che ovviamente si acuiscono
in caso di guerra. Una tesi che trova fondamento nella definizione di
"asociali" con la quale inizialmente gli zingari furono deportati,
ma che non considera il fatto che, secondo le teorie nazionalsocialiste,
gli zingari erano tali perché le caratteristiche loro attribuite
dai nazisti erano nei loro geni, nel loro sangue, che li rendeva "irrecuperabili"
condannandoli quindi allo sterminio, alla cosiddetta "soluzione
finale".
Va comunque tenuto presente che, almeno per ciò che riguarda
il nazismo (e grazie soprattutto all'impegno della studiosa ebrea Miriam
Novitch che dedicò gran parte della sua vita a raccogliere documenti
sullo sterminio del popolo Rom), esiste oggi una documentazione sufficiente
a dimostrare che gli zingari sono stati tra le vittime dello sterminio
razziale e che almeno 500.000 di loro sono morti nei Lager, dopo esser
stati imprigionati, torturati e violentati come tutti gli altri prigionieri.
Altri sono stati uccisi nelle esecuzioni di massa nei paesi dell'est,
ma su questo i dati sono davvero scarsissimi.
Non si può invece parlare di ricerca per quel che riguarda l'Italia
dove le conoscenze sulla persecuzione degli zingari durante il fascismo
sono poche e contraddittorie e si basano quasi esclusivamente sulle
testimonianze raccolte nel dopoguerra dai pochi studiosi (tra i quali
spicca la figura di Mirella Karpati, del Centro studi zingari, che ha
raccolto quasi tutta la documentazione orale oggi disponibile) che si
sono occupati della deportazione degli zingari, senza mai ricevere la
dovuta attenzione.
I dati storici raccolti a oltre cinquant'anni dai fatti sono scarsi,
tanto da non permettere ancora di stabilire con certezza come e quanto
gli zingari siano stati perseguitati nell'Italia fascista e per quali
ragioni.
Eppure la documentazione d'archivio ci fornisce testimonianze orali,
ci restituiscono un quadro ancora contraddittorio ma di grande interesse.
Coloro che si sono occupati dell'argomento hanno finora generalmente
affermato che la politica discriminatoria fascista era indirizzata in
particolare contro gli zingari stranieri presenti in territorio italiano
e dovuta a ragioni di ordine pubblico. Secondo questa ipotesi fu essenzialmente
l'occupazione della Jugoslavia e la conseguente fuga degli zingari da
quel paese a costringere le autorità italiane a internare gli
zingari. In un certo senso è persino ovvio che le misure di internamento
e deportazione degli zingari siano aumentate e divenute più intransigenti
con l'occupazione della Jugoslavia, anche solo perché è
da quel territorio che molti zingari scapparono in Italia dopo l'occupazione
nazifascista.
È quindi possibile ipotizzare che le misure di deportazione per
gli zingari, italiani e non, si siano acutizzate sul finire del 1941,
ma questo non esclude atteggiamenti discriminatori anche in precedenza
e non necessariamente indirizzati contro gli zingari stranieri.
Come si vede si tratta di un ordine importante anche perché,
nei documenti d'archivio, è seguito da una fitta corrispondenza
che indica come i prefetti eseguano gli ordini procedendo al rastrellamento
degli zingari nelle loro provincie: esistono lettere e telegrammi delle
autorità di Campobasso, Udine, Ferrara, Ascoli Piceno, Aosta,
Bolzano, Trieste e Verona, che, rispondendo agli ordini, indicano come,
rapidamente, gli zingari diventino una preoccupazione urgente e importante
in tutto il Regno. Poi, il 27 aprile 1941, il Ministero dell'Interno
emana un'altra circolare avente ancora per oggetto l'Internamento degli
zingari italiani". Purtroppo, finora, l'esistenza dei campi di
concentramento per zingari è documentata quasi esclusivamente
dalle testimonianze orali. I ricordi degli zingari sono frammentari,
spezzati dalla riservatezza della memoria e dalla mancanza di una tradizione
scritta che caratterizza la loro cultura, ma raccontano l'esistenza
di luoghi di detenzione come Perdasdefogu, in Sardegna, il convento
di San Bernardino ad Agnone, in provincia di Campobasso, Tossicia, in
provincia di Teramo.
Mitzi Herzemberg (Lacio Drom n. 1, 1987) ricorda che ad Agnone, dove
gli zingari erano rinchiusi nel convento di San Bernardino, talvolta
gli uomini venivano portati fuori a scavare buchi per le mine che servivano
a ritardare l'avanzata alleata.
Le guardie fasciste infierivano con punizioni durissime sui prigionieri:
lui, che allora aveva quattordici anni, lavorava in cucina e cercava
di passare un po' di cibo ai suoi familiari, venne portato fuori per
essere fucilato con alcuni altri. Si salvò perché all'ultimo
momento la sua pena fu commutata in bastonature e segregazione.
Antonio Hudorovic è stato prigioniero a Tossicia: "Una volta,
dice quando eravamo a Tossicia, è venuto un ufficiale
tedesco. Ci ha preso tutte le misure, anche della testa. Ha detto che
era per darci un vestito e un cappello". Tossicia è l'unico
campo di concentramento sul quale si hanno dati abbastanza certi.
Le carte e gli atti degli archivi comunali sui quali ha lavorato
in particolare Anna Maria Masserini (Storia dei nomadi, GB od., 1990)
dicono che risulta funzionante dal 21 ottobre 1940 e che dall'estate
del 1942 ci sono anche prigionieri zingari, in condizioni miserevoli
descritte dal direttore del campo e dall'ufficiale sanitario come invivibili.
Testimonianze sparse ricordano altri luoghi di detenzione: Viterbo,
Montopoli Sabina, Collefiorito, le isole Tremiti. È anche documentata
la presenza di zingari a Ferramonti di Tarsia, uno dei più grandi
campi di concentramento italiani, esistito dal luglio 1940 al settembre
1943.
Come è noto, dopo l'8 settembre e con l'inizio dell'occupazione
tedesca, molti campi dell'Italia centro-meridionale vennero smantellati,
anche per l'arrivo degli alleati, ma questo non significò la
fine della deportazione in Italia, nemmeno per gli zingari.
Il Rom abruzzese Arcangelo Morelli racconta di esser stato rinchiuso
e torturato nel manicomio dell'Aquila, trasformato in quartier generale
della Gestapo e sappiamo anche che a Gries di Bolzano, anticamera dei
Lager nazisti, erano detenuti anche gli zingari.
Giuseppe Levakovich, in un libro che è la sua memoria, ripercorre
molte delle vicende degli zingari negli anni delle dittature e della
guerra, prima in Jugoslavia poi in Italia e ricorda, con amarezza, la
storia di sua moglie, Wilma, e di altre due giovani zingare, Muja e
Mitska, internate a Ravensbrück e poi a Dachau.
Giovanna Boursier
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