Tela grigia

di Patrizia Puccio

La giornata era giunta stancamente al momento in cui il sole si curva verso ovest per iniziare la sua discesa sull'altra metà del cielo; l'aria calda di giugno penetrava a tratti dalle imposte chiuse, e il sole filtrava dagli interspazi andando a colpire i mobili alle mie spalle. Il cassettone, lo specchio, la cornice rococò di un vecchio dipinto, l'armadio, la tazza da caffè piena, sul comodino. La luce in fonna di tanti cerchietti luminosi, faceva ghirigori sulla lanugine bionda delle mie braccia, abbandonate in grembo come senza vita. Era una giomata come le altre, uguale a ieri e identica a domani; le risa della gente, i piccoli mercanteggiamenti ai banchi del mercato, semivuoti e perduti nel grande spazio della strada, le grida di alcuni bambini cenciosi e le chiacchiere della vicina... Sembrava tutto visibile e definito anche con le imposte chiuse e io potevo vedere tutto come se fossi stata lì; la vita brulicava tre piani più sotto e io ero morta, seccata dentro, come un fiore senza sole e senza acqua. Tre anni prima Marco era tornato a tarda notte, non aveva voluto parlare, si negava ai miei sguardi, alle mie domande, alla mia paura, alla paura gelosia. Gelosa di che, di chi, mi urlava senza parole con gli occhi feriti. Ma erano le tre di notte e il coprifuoco scattava alle undici; che cosa avrei dovuto pensare, sola e affranta nel mio letto, in una città svuotata dalla guerra e dalle deportazioni?
-Domani parto con Fabio, parto per il Nord; da sola a Roma non ci resti. Ho scritto alla zia, vai da lei in campagna finchè non torno. Disse tutto in fretta, come per liberarsi di un peso, poi mi prese le mani e se le portò alle labbra, guardandomi con gli occhi colmi di tristezza, paura, e non so che altro.
-Dormi, che ti fa male star sveglia, domani appronto tutto io, ti sveglio a cose fatte e partiamo.
Questo disse prima di stringermi a sé e addormentarsi. In campagna mangiavo solo pane nero e riso e latte, ma in grosse quantità e sempre il latte migliore. Ero incinta, sola e sfollata, ma in buone mani.
-Deve nutrirsi, la ragazzina, perché aspetta, mica come te, che stai sempre lì seduto e mangi pane a tradimento.
La zia rimbrottava il vecchio marito, guardandolo da sotto in su attraverso gli occhiali, con una smorfia acida sul viso rugoso. Quando eran trascorsi tre mesi dalla partenza di Marco, un mattino di settembre, uggioso e spento, i dolori cominciarono a squassarmi le reni. Dopo otto ore di travaglio un vagito acuto e sonoro proruppe tra le mura della casa: era nata Rebecca. Avevo dato al mondo un'altra vita mentre i tedeschi ne raschiavano via migliaia dalla faccia scura della terra. Guardavo il visino roseo di mia figlia e mi chiedevo dove fosse suo padre, passando ore alla finestra pregando di vederlo tornare. La zia mi carezzava i capelli sospirando, poi si sedeva accanto a me e prendeva a cucire camiciole per la bambina, con una tela grigia e ruvida al tatto: tutto quello che aveva, tutto ciò che ci era rimasto. Anche la mia anima, col tempo, divenne come quella vecchia tela; grigia e ruvida, così mi sentivo, dentro e fuori. Tre giorni fa i nazisti irruppero di botto nel cascinale, urlando torrenti di parole dure e incomprensibili. Rebecca piangeva, la zia sgranò occhi, bocca e rosario, tempestandolo di Ave Maria, lo zio non ebbe neppure il tempo di accorgersene che il cuore gli venne meno. Povero zio, muto e immobile sulla sua vecchia sedia accanto alla stufa, e la pena straziante di non potergli dare sepoltura, mentre ci caricavano spintonandoci su grigie canfionette colme di uomini, donne, bambini...
-Ave Maria piena di grazia, il Signore è con te... -Prega zia, prega per te, per me, per Marco, prega. Prega.
Oggi. 18 giugno 1945, tappata in questa tana come un topo di fronte alle finestre aperte con le imposte chiuse, fuori la città tenta di rifiorire, la gente vuole dimenticare. Tutto è uguale a ieri, tutto sarà uguale domani. Sola, di fronte alle imposte serrate, guardo giocare Rebecca; da tre anni non ho più notizie di lui, da tre anni e in tre anni, le sole cose che so sono due: era membro della Resistenza, era stato fatto prigioniero e poi deportato a Dachau dai nazisti. Era morto, gassato, fucilato o chissà che, lui era morto e io non sapevo dove, non sapevo su quale tomba affondare le ginocchia per pregare, non sapevo su quale marmo gridare la mia disperazione e la mia rabbia, non sapevo dove poter posare i miei fiori e la mia rabbia, si la mia rabbia, perché lui se ne era andato e io non sapevo nulla, era partito per combattere le tenebre e io non sapevo nulla. Mi aveva escluso, ed era partito per me e contro di me, e per i suoi ideali ci aveva tradite, se ne era andato.
Dalla strada la gente urlava come impazzita, i bambini chiamavano a gran voce e le donne piangevano; che era? Che stava accadendo ancora, adesso che la guerra era cosa lontana ed io non avevo più nulla? La gente correva sulle scale e le grida piene di pianto coprivano il silenzio. Rebecca, immobile, guarda alle mie spalle, mi volto. Un uomo cencioso, sporco e scavato in viso mi guarda triste, le sue mani sono rose e screpolate, i suoi occhi spenti e lucidi, le sue labbra arse si aprono in un sorriso, e da quel sorriso tutta la nostra vita esce come per incanto, la primavera del '38 quando le campane suonavano e i suoi occhi ridevano mentre mi portava in braccio qui, in questa casa, in questa stanza. Un nodo mi si era fermato sulla bocca dello stomaco e piano come una lenta lumaca mi saliva verso la gola, attraversando la mia anima come io avevo attraversato quegli anni, con le labbra dischiuse lo attendo riemergere, un urlo, uno strepito di gioia, di amore, di tristezza - Marco, Marco, Marco.
Rebecca, piccola e soffice si stringe alle mie ginocchia, Marco mi abbraccia forte, mentre il sole si tuffa dietro il cupolone, aranciando il cielo ancora caldo di questa calda giornata di giugno, e la guerra è cosa lontana.