La testimonianza di Ferruccio Derenzini

La resistenza negli ultimi giorni di aprile a Kottern

 

Circa 600 deportati a Dachau coinvolti nei "gruppi di azione" organizzati per contrastare la temuta liquidazione finale del campo. L'arrivo degli "Yankees".

Era il mese di aprile dell'anno 1945. Nelle fabbriche, dove lavoravamo, riuscivamo a captare notizie, di buona fonte, sui decisivi progressi delle forze alleate sui vari fronti, Mentre molti lavoratori civili tedeschi incominciavano ad assentarsi dal lavoro, "Meister" compresi, i "lavoratori liberi", specie quelli francesi, svolgevano un servizio d'informazione di prim'ordine nei nostri riguardi.
Ci incontravamo sempre più spesso negli atrii e nei gabinetti degli stabilimenti, eludendo la sorveglianza delle SS. Dopo il 20 aprile le SS non ci portarono più a lavorare. Ne traemmo subito dei buoni auspici; nel comportamento dei nostri carcerieri intravvedevamo qualcosa che doveva preludere - a scadenza sempre più ravvicinata - alla nostra liberazione. Mentre le notizie della rapida avanzata di un'armata americana in direzione di Kempten (il nostro campo era a Kottern bei Kempten) ritempravano le nostre residue energie, d'altro canto l'ordinanza di Himmler - di cui venimmo a conoscenza - decretava l'eliminazione di tutti i deportati politici prima che cadessero in mano agli Alleati.
Per poter contrastare e neutralizzare l'infame progetto, ci organizzammo in "gruppi d'azione". Ne costituimmo
una trentina con i circa seicento deportati del campo. Ogni gruppo era formato da 15-20 di noi, tutti o quasi di nazionalità omogenea, per ovvie ragioni. Nel nostro gruppo eravamo in diciassette tra italiani e francesi. Gli altri gruppi erano formati da olandesi, polacchi e russi. Secondo i nostri calcoli i trenta gruppi corrispondevano più o meno al numero delle SS e cani poliziotto che avremmo dovuto affrontare nel momento più opportuno.
Pur fisicamente debilitati, eravamo fiduciosi nel nostro piano, decisi a tutto, anche al sacrificio della vita nell'interesse di tutti. Avremmo venduto a caro prezzo la nostra "pelle ed ossa". All'appello del mattino del 26 aprile 1945 non ci sorpresero né il pallore né il malcelato terrore delle SS. Già nella notte si affaccendarono a far caricare un carro agricolo di equipaggiamenti, cassette di munizioni e cibarie. A noi venne distribuita una misera razione del solito "pane alla segatura" e venne ordinato di prendere l'unica coperta che avevamo in dotazione. Decine
di deportati ammalati, incapaci di reggersi in piedi, vennero abbandonati al loro destino, riuniti in un'unica baracca, sorvegliati da pochi militari anziani della riserva della Wehrmacht. Era in atto la precipitosa e anche temuta evacuazione del campo. Uscimmo dai reticolati per l'ultima volta. Procedevamo in doppia fila indiana ai due lati della strada; una strada a mezza costa tra monti e colline. In mezzo alla strada, distanziati tra loro di una ventina di metri, marciavano le SS con i cani. Il carro agricolo, spinto a braccia da una ventina di deportati, chiudeva la lunga colonna. In retroguardia una nutrita pattuglia di SS sorvegliava il "prezioso" carico del carro.
Risalimmo la valle dell'Iller e dopo ore e ore di marcia passammo per Durach e Bodelsberg. Qualcuno, già sfinito dalla fatica, cadeva a terra; altri, invece, non più in condizioni di reggersi in piedi, rimanevano accasciati sul ciglio della strada. Le SS di retroguardia avrebbero pensato a dar loro l'eterno riposo a raffiche di mitra. Di quelle raffiche ne udimmo parecchie in quel giorno. La marcia proseguiva e l'eliminazione cominciava! Camminavamo ormai da più di dodici ore, ma la distanza percorsa non superava i trenta chilometri; anche perché i compagni che erano in testa alla colonna si prodigavano al massimo a rallentare la marcia, consentendo ai più provati di salvarsi da un'anticipata eliminazione. Giunse la notte. Le SS ci fecero stendere sino all'alba nel bosco ceduo a monte della strada ed esse si appostarono in posizione dominante per tenerci sotto il tiro dei mitra. Faceva molto freddo. La coperta non dava alcun calore ai nostri corpi esausti e affamati. La misera razione di pane era stata già divorata al mattino, e le radici strappate alla terra e le rare lumache contese ai compagni - negli argini della strada - in disperati slanci non avevano placato i morsi della fame.
Ci raggomitolammo e stringemmo gli uni agli altri tentando di riscaldarci con i nostri corpi. I"gruppi d'azione" vigilavano, con due uomini, a turno, sulle eventuali mosse delle SS. Ma nessuno dormiva in quel clima di esasperata diffidenza e di tensione. Era un dormiveglia di attesa, di paura e di speranza. Sorse finalmente l'alba del 27 aprile 1945. Le SS ci rimisero in fila sulla strada, senza nemmeno più contarci; continuammo la marcia sempre più lenta, sempre più faticosa, verso l'ignoto; un ignoto che già si profilava tale anche per le stesse SS. Quel giorno - dopo aver superato Oy e Nessenfang - perdemmo ancora molti compagni lungo la strada; non si capiva più se assassinati o solo abbandonati a se stessi, perché eravamo entrati nel vivo di una battaglia tra tedeschi e Alleati. Già nel primo pomeriggio fummo spettatori di una precipitosa ritirata della Wehrmacht, incalzata da carri armati americani e da aerei da caccia che a volo radente spezzonavano le truppe in rotta. Gli effetti dei cannoneggiamenti e dei mitragliamenti erano ormai alla portata dei nostri occhi. Vedemmo con immensa soddisfazione un'interminabile colonna di autoambulanze della croce rossa tedesca stipate di ufficiali della Wehrmacht che disperatamente cercavano di sottrarsi all'inseguimento degli Alleati. Mentre nascosti nel bosco che fiancheggiava la strada assistevamo alla precipitosa ritirata tedesca, erano già calate le ombre della sera e le SS di scorta, terrorizzate, si erano dileguate e date alla macchia nelle alture circostanti. Eravamo nell'Allgau, alle porte di Pfronten. Ci accolsero le "Volks-sturni"con scariche di fucileria, che fecero ancora qualche vittima tra i nostri compagni. Il nostro gruppo era rimasto integro e, aiutato da elementi della Resistenza francese, venne messo al sicuro in un capanno di contadini adibito a deposito di attrezzi agricoli. Lì passò la notte, mentre dal di fuori giungeva l'eco dei passi cadenzati di una delle ultime pattuglie di "Panzerfaust". Il mattino del 28 aprile 1945 i carri armati americani entrarono a Pfronten. Fummo defiffitivamente liberi! Salutammo ed applaudimmo con commozione quei simpatici "Yankees" - molti gli italo-americani - che sui loro mezzi corazzati andavano all'inseguimento dei tedeschi in fuga, cantando e suonando. Ci lanciavano sigarette, cioccolato e chewing-gum, come fosse tempo di sagra, non più di guerra; mentre noi ci sbracciavamo per salutarli e ringraziarli con entusiastici "Welcome" e ripetuti "Thankyou".

Ferruccio Derenzini (Dachau 67.312)