Una presentazione scritta dall'autore nel 1965

Così nacque in me l' idea della "Tregua"

Nel 1965 la casa editrice Einaudi pubblicò il libro di Primo Levi "La tregua" nella collana "Letture per la scuola media".

Primo Levi curò personalmente questa nuova edizione del suo libro, scrivendo decine di note esplicative, per consentire ai ragazzi più giovani di comprendere il suo racconto. Nell'occasione egli scrisse anche una introduzione, nell'intento di spiegare ai suoi giovani lettori il contesto in cui il libro nacque.

Una presentazione che ci piace di riprendere quasi per intero, data l'attualità del racconto di Primo, adesso che nelle sale di tutta Italia circola la versione cinematografica.

Sono nato a Torino, nel 1919, da una famiglia moderatamente agiata di ebrei piemontesi. Esistono molti modi diversi di essere ebrei: dalla piena osservanza delle regole religiose e delle tradizioni, fino alla indifferenza totale, ed alla accettazione del modo di pensare e di vivere della maggioranza. Per me, essere ebreo significava qualcosa di vago, non propriamente un problema: significava una tranquilla consapevolezza della antichissima storia del mio popolo, una sorta di incredulità benevola di fronte alla religione, una tendenza spiccata verso il mondo dei libri e delle discussioni astratte. Per tutto il resto, non mi sentivo diverso dai miei amici e condiscepoli cristiani, e mi sentivo a mio agio in loro compagnia.
Da ragazzo, avevo desiderato di seguire varie vie: dai 12 ai 14 anni, di diventare un linguista, dai 14 ai 17 di essere astronomo. A 18 anni mi sono iscritto all'Università, nel corso per la laurea in chimica. Non avrei certo pensato di diventare uno scrittore, se non vi fossi stato condotto da una lunga catena di avvenimenti. Come è facile ricavare dal mio anno di nascita, sono cresciuto ed ho compiuto i miei studi in tempo fascista: non comprendevo appieno il senso oppressivo del fascismo, ma nutrivo una imprecisa irritazione e avversione contro gli aspetti più volgari e illogici della cosiddetta cultura fascista.
Nel 1938 furono proclamate in Italia le leggi razziali. Non erano provvedimenti gravi come quelli che, in Germania, stavano avviluppando in una rete mortale la minoranza ebraica insieme con gli altri "nemici dello Stato": tuttavia, separavano gli ebrei dal resto della popolazione, e riaccendevano nelle nostre memorie i ricordi tristi dei ghetti, spariti solo novant'anni prima. Seguirono leggi assurde, inique e vessatorie; i giornali, ogni giorno, erano pieni di menzogne e di offese. Era una inversione, un capovolgimento ridicolo e crudele della verità: gli ebrei non solo erano "da sempre" i nemici del popolo e dello Stato, ma i negatori della giustizia e della morale, i distruttori della scienza e dell'arte, i tarli che col loro lavorio occulto minano alle basi l'edificio sociale, i colpevoli del conflitto ormai imminente. Questa insistente campagna di calunnia ebbe tuttavia funzione di reattivo sulla coscienza degli italiani, addormentati da 15 anni di fascismo: valse a creare una ben netta linea di demarcazione fra chi credeva e obbediva e chi rifiutava fede e obbedienza, e ad aprire gli occhi a tutti (non solo agli ebrei) sulla vera natura del fascismo e del nazismo.
Quando il fascismo cadde, nell'estate del 1943, provai gioia ed entusiasmo per quello che mi sembrava uno spontaneo atto di giustizia della storia, ma non ero preparato affatto al duro periodo di lotta che seguì, e che non poteva non seguire; mi sentivo indeciso, inesperto, e la prospettiva del combattimento mi spaventava. Salii ugualmente in montagna, e mi aggregai ad una banda partigiana del movimento "Giustizia e Libertà": una banda in formazione, ancora disarmata e molto povera; poche settimane dopo incappammo in un grosso rastrellamento della milizia fascista. Molti riuscirono a fuggire: io e pochi altri fummo catturati. Quando fui interrogato, ammisi di essere ebreo, perché speravo che i fascisti si limitassero a rinchiuderini in un campo di concentramento in Italia, o in una prigione; invece, nel febbraio 1944 fui consegnato nelle mani dei tedeschi.
Trovarsi in potere dei tedeschi, in quegli anni, significava per qualsiasi ebreo un destino terribile. L'odio contro gli ebrei, latente da secoli in Germania e in tutta l'Europa orientale, aveva trovato in Hítler il suo profeta e banditore; e Hitler aveva trovato, in milioni di tedeschi, un esercito di collaboratori obbedienti e volonterosi. Già da anni gli ebrei erano stati espulsi dalla vita del paese, e costretti alla fame, alla reclusione in nuovi ghetti, al lavoro forzato per le industrie di guerra: ma intorno al 1943, in gran segreto, si era incominciato a tradurre in atto un programma inaudito, talmente orrendo che, anche nei documenti ufficiali, veniva indicato solo con sinistre allusioni: "trattamento appropriato", "soluzione finale del problema ebraico".
Questo programma era semplice ed agghiacciante: tutti gli ebrei dovevano essere distrutti. Tutti, senza eccezione: anche i vecchi, i malati, i bambini; tutti i milioni di ebrei che, col succedersi delle invasioni in Europa, si trovavano ormai in mano ai nazisti: ebrei tedeschi, polacchi, francesi, olandesi, russi, italiani, ungheresi, greci, jugoslavi. Ma uccidere in silenzio milioni di persone, anche se inermi, non è impresa facile: e allora ecco mobilitata la celebre abilità tecnica e organizzativa tedesca. Si costruirono impianti speciali, nuove macchine mai concepite prima: vere fabbriche della morte, capaci di sterminare migliaia di creature umane in un'ora con gas tossici, come si fa coi topi nelle stive, e di incenerirne i cadaveri. Il più grande di questi centri di distruzione si chiamava Auschwitz: ad Auschwitz arrivavano ogni giorno tre, cinque, dieci treni carichi di prigionieri, da tutti gli angoli d'Europa; in poche ore dall'arrivo l'opera di sterminio era compiuta. Pochissimi si salvavano dalla fine immediata: solo gli uomini e le donne più giovani e più forti, che i tedeschi inviavano in campi di lavoro. Ma anche in questi campi la morte era sempre in agguato: la morte per fame o per freddo, o per le malattie provocate da fame, freddo e fatica; inoltre, tutti coloro che venivano giudicati non più abili al lavoro venivano immediatamente inviati ai centri di sterminio.
I tedeschi mi deportarono proprio ad Auschwitz. Fui giudicato adatto ai lavori pesanti, e inviato al campo di lavoro di Buna-Monowitz: tutti i prigionieri di questo campo lavoravano in una enorme fabbrica di prodotti chimici. Ho vissuto a Buna un anno, durante il quale morirono i tre quarti dei miei compagni, immediatamente sostituiti da masse di nuovi prigionieri destinati a loro volta alla morte. Sono sopravvissuto grazie ad una combinazione di rare fortune: non mi sono mai ammalato, ho ricevuto cibo da un operaio italiano "libero", negli ultimi mesi ho potuto far valere la mia qualità di chimico e lavorare in un laboratorio della sterminata fabbrica anziché in mezzo al fango e alla neve: inoltre, conoscevo un po' di tedesco, e mi sono sforzato di imparare questa lingua quanto meglio e più presto potevo, perché avevo compreso quanto essa fosse necessaria per orientarsi nel mondo complicato e spietato del campo di concentramento. Il centro di Auschwitz fu liberato dalle truppe sovietiche nel gennaio 1945, ma la nostra speranza in un rapido ritorno in Italia doveva andare delusa. Per ragioni non chiare, forse soltanto come conseguenza dell'estremo disordine che la guerra aveva lasciato dietro di sé in tutta Europa, e in Russia in specie, il nostro rimpatrio ebbe luogo solo nell'ottobre, e si svolse lungo un itinerario lunghissimo, imprevedibile e assurdo, attraverso la Polonia, l'Ucraina, la Russia Bianca, la Romania, l'Ungheria e l'Austria.
Rientrato in Italia, dovetti affrettarmi a trovare un lavoro, per mantenere me e la mia famiglia: ma la non comune esperienza che mi era toccata in sorte, il mondo infernale di Auschwitz, la miracolosa salvazione, le parole e i volti dei compagni scomparsi o sopravvissuti, la libertà ritrovata, l'estenuante e straordinario viaggio di ritorno, tutto questo mi premeva dentro imperiosamente. Avevo bisogno di raccontare queste cose: mi sembrava importante che esse non rimanessero a giacere dentro di me, come un incubo, ma fossero conosciute, non solo dai miei amici ma da tutti, dal pubblico più vasto possibile. Appena potei incominciai a scrivere, con furia e insieme con metodo, quasi ossessionato dal timore che anche uno solo dei miei ricordi potesse andare dimenticato.
Così è nato il mio primo libro, Se questo è un uomo, che descrive l'anno di prigionia ad Auschwitz: l'ho scritto senza sforzo e senza problemi, con soddisfazione e sollievo profondi, e con l'impressione che quelle cose "si scrivessero da sole", trovassero in qualche modo una via diretta dalla mia memoria alla carta. Se questo è un uomo ebbe successo, ma non tale da farmi sentire "scrittore" a pieno titolo. Avevo detto quanto dovevo dire, avevo ripreso la mia professione di chimico, non provavo più quel bisogno, quella necessità di raccontare, che mi avevano costretto a prendere la penna in mano.
Tuttavia, questa esperienza nuova, così estranea al mondo del mio lavoro quotidiano, l'esperienza dello scrivere, del creare dal nulla, del cercare e trovare la parola giusta, del fabbricare un periodo equilibrato ed espressivo, era stata per me troppo intensa e felice perché non desiderassi ritentare la prova. Avevo ancora molte cose da narrare: non più cose tremende, fatali e necessarie, ma avventure allegre e tristi, paesi sterminati e strani, imprese furfantesche dei miei innumerevoli compagni di viaggio, il vortice multicolore e affascinante dell'Europa del dopoguerra, ubriaca di libertà e insieme inquieta nel terrore di una nuova guerra.
Sono questi gli argomenti di La tregua, il libro del lungo viaggio di ritorno. Credo si distingua agevolmente che esso è stato scritto da un uomo diverso: non solo più vecchio di 15 anni, ma più pacato e tranquillo, più attento alla tessitura della frase, più consapevole: insomma, più scrittore in tutti i sensi buoni e meno buoni del termine.
Eppure, scrittore non riesco a considerarmi, neppure oggi: sono soddisfatto di questa mia condizione duplice, e conscio dei suoi vantaggi. Essa mi permette di scrivere solo quando lo desidero, e non mi obbliga a scrivere per vivere; sotto un altro aspetto, il mio mestiere quotidiano mi ha insegnato (e continua ad insegnarmi) molte cose di cui ogni scrittore ha bisogno. Mi ha educato alla concretezza e alla precisione, all'abitudine di "pesare" ogni parola con lo scrupolo di chi esegue un'analisi quantitativa; soprattutto, mi ha abituato a quello stato d'animo che suole chiamarsi obiettività: vale a dire, al riconoscimento della dignità intrinseca non solo delle persone, ma anche delle cose, alla loro verità, che occorre riconoscere e non distorcere, se non si vuole cadere nel generico, nel vuoto e nel falso.
Primo Levi