Gent. ma Signora, Molte volte il pensiero
di questa lettera, che solo oggi, dopo 4 mesi dal mio rientro
in Italia, mi accingo a scrivere, ha tormentato il mio animo,
sia nelle insonni notti di Mauthausen, sia dopo la liberazione,
nel lungo periodo ospedaliero, che ho dovuto passare al mio
rientro, a causa della mafferma salute. E l'ho sempre rinviata
di giorno in giorno, nella certezza che i miei compagni di campo:
avv. Pugliesi e dottor Calore, coi quali ebbi a parlare dopo
la liberazione, le avessero data la triste notizia, e nella
speranza che le mie parole non andassero a cadere su una troppo
fresca ferita. Non so se i detti compagni le hanno detto di
me come l'unico fra i pochi superstiti del campo maledetto,
che abbia condiviso con suo marito giaciglio, lavori, timori
e speranze. Mi volle bene come ad un figlio, e, forse, in me
vedeva suo figlio, del quale tanto mi ha parlato (per quanto
io fossi di 6 anni più vecchio).
Lo conobbi nel febbraio di quest'anno, al mio arrivo nel
campo ospedaliero o campo russo, (così detto per il rilevante
numero di Russi presenti) e, precisamente al blocco 1 che era
a quel tempo un blocco di invalidi e inabili al lavoro. Tutti
però fisicamente sani. Io ero stato inviato là per una mia gamba
invalida, e il buon Violante era già là da qualche tempo per
il riconoscimento di un vizio cardiaco che lo rendeva inabile
ai lavori pesanti. Quando lo conobbi egli lavorava nel cosiddetto
" Weberei " (tessitura) che era una baracca ove gli internati
inabili del blocco 1 intessevano cordicelle di carta e trecciole
di rifili di gomma, che servivano poi a fare stuoie e simili.
Lavorammo insieme là il febbraio e il marzo, seduti vicini alla
nostra cordicella. In quel periodo si stava abbastanza bene,
relativamente, per quanto ci facessero andare al lavoro alle
5 del mattino, con indosso la sola camicia (pantaloni e giacca
venivano lasciati la sera sul posto di lavorazione) ed altri
espedienti non mancassero per attentare alla nostra salute,
tenevamo duro e si resisteva bene. L'alimentazione, anche era
ancora tale che, per quanto il deperimento fosse continuo, lasciava
vivere. Il
brutto sopravvenne alla fine di marzo,
in quell'epoca la lavorazione fu interrotta e rimanemmo giorni
e notti inerti nei nostri giacigli: ci riunimmo insieme, io,
Violante, Biga (veterinario di Bovisio Mombello) e Rocca (avvocato
di Savona). Anche essi purtroppo non sono più. Rimanevamo i
lunghi giorni, per non consumare energie, immobili, dato il
regime di fame al quale in aprile ci misero, per eliminarci
in massa; spesso abbracciati per riscaldarci. Così ci parlavamo
tra noi, della nostra vita e delle nostre speranze per l'avvenire:
perché pure coscienti di essere in luogo di morte, ci si teneva
aggrappati, e si sperava nella vita. Per quanto evitassimo di
regola, di parlare dei congiunti per non tormentarci ai ricordi,
pure tante volte mi parlò di loro.
Era certo di rivedervi: contava di farsi aiutare dal figliuolo
e da me nei suoi due immediati progetti: la stesura di un lavoro
sui campi di concentramento e la creazione di un giornale a
Milano, al quale avremmo dato il titolo 'Il triangolo rosso
" (era il nostro contrassegno di detenuti politici). Si preoccupava
talvolta al pensiero del figlio che sapeva alle armi, ma si
rasserenava nella grande fiducia che aveva in lui, nella sua
prudenza, nella sua intelligenza e soprattutto
nell'efficacia
dell'esempio paterno. Qualora la liberazione fosse
stata vicina (questa era la costante speranza) si proponeva
di lavorare al libro ed al giornale intensamente appena giunto
a casa, incurante anche della salute, e di riposarsi solo dopo
aver dato vita alle sue creazioni.
Le accennavo, signora, che il destino crudele infierì nell'aprile.
Sentivamo tutti che si era alla fine della guerra e per questo
incrudiva la reazione degli aguzzini; maltrattamenti no, in
quanto non ne davamo occasione, inerti ed abbandonati come eravamo,
ma grande fame che mieteva spaventosamente tutti i più deboli:
ma il buon Violante si manteneva malgrado tutto, abbastanza
bene: solo dei gonfiori alle gambe che gli derivavano dal difetto
cardiaco lamentato. Contavamo di sopravvivere in quanto sapevamo
che i Russi erano a Vienna ed avanzavano lungo il Danubio. Ma
ciò provocò l'irreparabile fattaccio.
Infatti coll'incalzare
dell'avanzata il campo si affollò sempre
più per arrivi di evacuati
da altri campi dipendenti da
Mauthausen ed un brutto giorno, intorno al 20 aprile ci condussero
tutti fuori dalle baracche dicendoci che sarebbe stata fatta
una scelta per sfollare il campo, conducendo buona parte di
noi in un campo succursale di nuova istituzione. Perciò fu iniziato
un appello sommario: nell'attesa della chiamata ci consigliammo,
io e suo marito, come sempre inseparabili, sulla nuova prospettiva.
Da un lato ci rabbuiava il passo verso l'ignoto che si stava
per fare, d'altro lato si era portati ad accogliere favorevolmente
una nuova situazione, qualunque essa fosse, che ci avesse tolti
da quella terribile inedia, da quel giaciglio di morte. Circolava
poi anche la voce che nel nuovo campo le razioni del vitto sarebbero
state superiori. Violante fu chiamato prima di me e inviato
da un canto del cortile insieme alla maggioranza scelta per
il nuovo campo.
Erano là quasi tutti
gli Italiani della nostra baracca
i o invece fui rinviato
nel blocco insieme a pochi altri, perché? Domanda ancora oggi
senza risposta. Strani destini della vita umana sospesa a un
filo sottilissimo. Io mi trovai sperduto e solo nella baracca
ed ebbi una crisi di scoramento; rividi ancora una volta Violante:
nell'abbracciarlo piansi ed egli mi incoraggiò e mi assicurò
che ci saremmo rivisti a Milano. Le sue ultime parole furono:
"Chi arriverà per primo, in Italia telegraferà all'altro ".
Poi raggiunse la sua schiera che ormai si accodava alla massa
che usciva dal filo spinato: erano ben 2800 uomini.
Alcuni giorni dopo mi giunse la notizia
che erano stati tutti uccisi coi gas. Ma non ci credetti anche
quando la notizia era sulla bocca di tutti: ma vi dovetti credere
il giorno I maggio quando, fuggite le SS, furono condotti nel
campo russo 40150 scampati di quella massa, fra i quali un solo
italiano, un certo Bagna di Milano che mi confermò l'accaduto.
Anche lui alcuni giorni dopo moriva per esaurimento. Purtroppo,
signora, il destino è stato crudele: se non ci fosse stata la
barbarie finale anche il buon Violante era in condizioni di
poter resistere e tornare, sfinito ed esausto, alla sua famiglia,
ma eravamo in balia di veri barbari che hanno voluto così bestialmente
sfogare la sconfitta. (...)
Devotissimo
Aldo Pantozzi
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