"Alfredo Violante", di Antonio Fanizzi

"Liberi, faremo un giornale intitolato Triangolo Rosso"

Il Comune di Rutigliano, nelle Puglie, in collaborazione con la Regione, ha curato la pubblicazione di questo importante volume, nel quadro delle manifestazioni per il cinquantesimo della liberazione. L'autore, Antonio Fanizzi, ripercorre le tappe dello straordinario impegno civile e culturale di Alfredo Violante; giornalista, animatore culturale, avvocato, Violante terminò tragicamente la sua intensa esistenza nel forno crematorio di Mauthausen il 24 aprile del '45, a pochi giorni dalla liberazione. il volume contiene anche la lunga lettera con la quale un compagno di deportazione, Aldo Pantozzi, di Bolzano, raccontò alla famiglia gli ultimi giorni di Violante a Mauthausen. è, una lettera piena di umanità e ricca di particolari importanti, di cui qui di seguito riproduciamo ampi stralci.

 

Alfredo Violante

Alfredo Violante

Gent. ma Signora, Molte volte il pensiero di questa lettera, che solo oggi, dopo 4 mesi dal mio rientro in Italia, mi accingo a scrivere, ha tormentato il mio animo, sia nelle insonni notti di Mauthausen, sia dopo la liberazione, nel lungo periodo ospedaliero, che ho dovuto passare al mio rientro, a causa della mafferma salute. E l'ho sempre rinviata di giorno in giorno, nella certezza che i miei compagni di campo: avv. Pugliesi e dottor Calore, coi quali ebbi a parlare dopo la liberazione, le avessero data la triste notizia, e nella speranza che le mie parole non andassero a cadere su una troppo fresca ferita. Non so se i detti compagni le hanno detto di me come l'unico fra i pochi superstiti del campo maledetto, che abbia condiviso con suo marito giaciglio, lavori, timori e speranze. Mi volle bene come ad un figlio, e, forse, in me vedeva suo figlio, del quale tanto mi ha parlato (per quanto io fossi di 6 anni più vecchio). Lo conobbi nel febbraio di quest'anno, al mio arrivo nel campo ospedaliero o campo russo, (così detto per il rilevante numero di Russi presenti) e, precisamente al blocco 1 che era a quel tempo un blocco di invalidi e inabili al lavoro. Tutti però fisicamente sani. Io ero stato inviato là per una mia gamba invalida, e il buon Violante era già là da qualche tempo per il riconoscimento di un vizio cardiaco che lo rendeva inabile ai lavori pesanti. Quando lo conobbi egli lavorava nel cosiddetto " Weberei " (tessitura) che era una baracca ove gli internati inabili del blocco 1 intessevano cordicelle di carta e trecciole di rifili di gomma, che servivano poi a fare stuoie e simili. Lavorammo insieme là il febbraio e il marzo, seduti vicini alla nostra cordicella. In quel periodo si stava abbastanza bene, relativamente, per quanto ci facessero andare al lavoro alle 5 del mattino, con indosso la sola camicia (pantaloni e giacca venivano lasciati la sera sul posto di lavorazione) ed altri espedienti non mancassero per attentare alla nostra salute, tenevamo duro e si resisteva bene. L'alimentazione, anche era ancora tale che, per quanto il deperimento fosse continuo, lasciava vivere. Il brutto sopravvenne alla fine di marzo, in quell'epoca la lavorazione fu interrotta e rimanemmo giorni e notti inerti nei nostri giacigli: ci riunimmo insieme, io, Violante, Biga (veterinario di Bovisio Mombello) e Rocca (avvocato di Savona). Anche essi purtroppo non sono più. Rimanevamo i lunghi giorni, per non consumare energie, immobili, dato il regime di fame al quale in aprile ci misero, per eliminarci in massa; spesso abbracciati per riscaldarci. Così ci parlavamo tra noi, della nostra vita e delle nostre speranze per l'avvenire: perché pure coscienti di essere in luogo di morte, ci si teneva aggrappati, e si sperava nella vita. Per quanto evitassimo di regola, di parlare dei congiunti per non tormentarci ai ricordi, pure tante volte mi parlò di loro. Era certo di rivedervi: contava di farsi aiutare dal figliuolo e da me nei suoi due immediati progetti: la stesura di un lavoro sui campi di concentramento e la creazione di un giornale a Milano, al quale avremmo dato il titolo 'Il triangolo rosso " (era il nostro contrassegno di detenuti politici). Si preoccupava talvolta al pensiero del figlio che sapeva alle armi, ma si rasserenava nella grande fiducia che aveva in lui, nella sua prudenza, nella sua intelligenza e soprattutto nell'efficacia dell'esempio paterno. Qualora la liberazione fosse stata vicina (questa era la costante speranza) si proponeva di lavorare al libro ed al giornale intensamente appena giunto a casa, incurante anche della salute, e di riposarsi solo dopo aver dato vita alle sue creazioni. Le accennavo, signora, che il destino crudele infierì nell'aprile. Sentivamo tutti che si era alla fine della guerra e per questo incrudiva la reazione degli aguzzini; maltrattamenti no, in quanto non ne davamo occasione, inerti ed abbandonati come eravamo, ma grande fame che mieteva spaventosamente tutti i più deboli: ma il buon Violante si manteneva malgrado tutto, abbastanza bene: solo dei gonfiori alle gambe che gli derivavano dal difetto cardiaco lamentato. Contavamo di sopravvivere in quanto sapevamo che i Russi erano a Vienna ed avanzavano lungo il Danubio. Ma ciò provocò l'irreparabile fattaccio. Infatti coll'incalzare dell'avanzata il campo si affollò sempre più per arrivi di evacuati da altri campi dipendenti da Mauthausen ed un brutto giorno, intorno al 20 aprile ci condussero tutti fuori dalle baracche dicendoci che sarebbe stata fatta una scelta per sfollare il campo, conducendo buona parte di noi in un campo succursale di nuova istituzione. Perciò fu iniziato un appello sommario: nell'attesa della chiamata ci consigliammo, io e suo marito, come sempre inseparabili, sulla nuova prospettiva. Da un lato ci rabbuiava il passo verso l'ignoto che si stava per fare, d'altro lato si era portati ad accogliere favorevolmente una nuova situazione, qualunque essa fosse, che ci avesse tolti da quella terribile inedia, da quel giaciglio di morte. Circolava poi anche la voce che nel nuovo campo le razioni del vitto sarebbero state superiori. Violante fu chiamato prima di me e inviato da un canto del cortile insieme alla maggioranza scelta per il nuovo campo.
Erano là quasi tutti gli Italiani della nostra baracca i o invece fui rinviato nel blocco insieme a pochi altri, perché? Domanda ancora oggi senza risposta. Strani destini della vita umana sospesa a un filo sottilissimo. Io mi trovai sperduto e solo nella baracca ed ebbi una crisi di scoramento; rividi ancora una volta Violante: nell'abbracciarlo piansi ed egli mi incoraggiò e mi assicurò che ci saremmo rivisti a Milano. Le sue ultime parole furono: "Chi arriverà per primo, in Italia telegraferà all'altro ". Poi raggiunse la sua schiera che ormai si accodava alla massa che usciva dal filo spinato: erano ben 2800 uomini. Alcuni giorni dopo mi giunse la notizia che erano stati tutti uccisi coi gas. Ma non ci credetti anche quando la notizia era sulla bocca di tutti: ma vi dovetti credere il giorno I maggio quando, fuggite le SS, furono condotti nel campo russo 40150 scampati di quella massa, fra i quali un solo italiano, un certo Bagna di Milano che mi confermò l'accaduto. Anche lui alcuni giorni dopo moriva per esaurimento. Purtroppo, signora, il destino è stato crudele: se non ci fosse stata la barbarie finale anche il buon Violante era in condizioni di poter resistere e tornare, sfinito ed esausto, alla sua famiglia, ma eravamo in balia di veri barbari che hanno voluto così bestialmente sfogare la sconfitta. (...)

Devotissimo Aldo Pantozzi