Una delegazione di ragazzi dal Canavese a Mauthausen e a Gusen

Nessuno studio, nessuna ricerca ha la forza della visita ai Lager

Il viaggio è terminato; ritorniamo da luoghi lontani e belli; nei nostri occhi ancora conserviamo l'immagine nitida delle valli, delle foreste, del grande fiume, delle case linde e ordinate dell'Austria Felix.
Ma subito, stridente e incredibile, il ricordo di quelle altre case affacciate sul crematorio di Gusen, il ricordo dell'edificio di ingresso dello stesso campo di concentramento di Gusen trasformato in residenza elegante, con le tendine di pizzo e i gerani alle finestre, cancellano tutte le altre idilliache immagini.
Anche per questo il nostro viaggio è stato diverso da qualunque altro viaggio, e nel momento di salutarci abbiamo avuto la precisa sensazione di aver vissuto un momento unico e fondamentale. Tra noi solidarietà, intesa, impegno per il futuro sono nati spontaneamente, come solo possono nascere in seguito alle esperienze più significative della vita. Noi studenti, insegnanti, cittadini del canavese abbiamo voluto compiere un pellegrinaggio in un luogo simbolo del nostro secolo: il Konzentrationslager nazista di Mauthausen, accompagnati da Marcello Martini, che il "grande viaggio" fu obbligato a compierlo a quattordici anni, per andare a lavorare come schiavo per il Terzo Reich.
In una splendida mattina di primavera abbiamo salito la collina che sovrasta Mauthausen e siamo andati incontro a quella macchina della morte che ancora incute angoscia, che a tutti noi in alcuni momenti è apparsa insopportabile. Marcello ci ha guidato e accompagnato; il suo racconto "per voce sola" ci ha restituito la soggetività di migliaia e migliaia di tragedie individuali che in quei luoghi si consumarono.
Noi che abbiamo letto, studiato, discusso, posto talvolta sterili domande accaderniche, ora siamo travolti dall'emozione in questo luogo di morte, non parliamo più, non vorremmo neppure muoverci e camminare: ci sembra di profanare il dolore, la sofferenza di chi ebbe la sorte di transitare e, troppo spesso, morire tra le dolci colline dell'Ober Osterreich, popolate di villaggi e fattorie che non ebbero per sette anni, dal 1938 al 1945, occhi per vedere, orecchie per sentire, voci per gridare contro ciò che si stava consumando oltre il muro del KZ.
Dopo la visita al Lager abbiamo cercato di dare forma alle nostre emozioni attraverso lo strumento più raffinato che possediamo: la parola, ma le parole stentavano a venire, o ci sono sembrate insufficienti. Ma abbiamo voluto egualmente provare: perché avrebbero dovuto averla vinta i nazisti?
E i più giovani tra di noi sono stati splendidi: hanno vinto il pudore di manifestare i loro sentimenti, hanno rivestito delle giuste parole le loro emozioni, dimostrando di avere occhi per vedere, orecchie per sentire, voci per parlare e lacrime da spendere per esecrare l'affronto più grande compiuto dall'uomo contro l'uomo: l'annientamento attraverso il lavoro di coloro i quali erano giudicati nemici e la sistematica e scientifica distruzione delle razze giudicate inferiori.
Che cosa hanno detto questi ragazzi?
Tutti hanno concordemente affermato che nessuna testimonianza, lettura, immagine ha la forza della visita a un KZ: l'immaginazione è assolutamente impotente nel raffigurare la macchina della morte concepita dai nazisti, morte che ancora vive e che i visitatori avvertono. Pare infatti che in ogni pietra, andito,
struttura tecnologicamente adattata allo scopo, la sofferenza non abbia mai avuto fine o tregua, occupando indisturbata le baracche, la piazza dell'appello ... e poi la camera a gas, il crematorio... E poi il Lager entra nella vita di ciascuno con un impatto emotivo inaspettato, e si prova subito il desiderio di parlarne con chi non è con noi in quel momento, di raccontare ciò che si è visto, ma le parole avranno forza sufficiente per giungere alla mente e al cuore di coloro che vorranno ascoltare? Si dovrà fare di tutto perché ciò avvenga.
La sofferenza di questi giovani è stata provocata non solo dalla compassione, dalla compartecipazione alle sofferenze individuali dei milioni di vittime dell'universo concentrazionario, ma dalla profonda repulsione per l'ideologia nazista, per i suoi epigoni, per coloro che oggi negano e giustificano.
Una ragazza ha detto che la gravità dei crimini commessi non potrebbe essere diminuita neppure se un solo uomo o donna o bambino avesse dovuto subire la deportazione e l'annientamento. Questa riflessione ci autorizza a sperare nel futuro, se il valore della vita di ogni uomo è così radicato nelle coscienze.
La storia non è finita, così come vive l'utopia di una società dei diritti per tutti gli uomini: ma questa grande utopia ha bisogno dell'umile e quotidiana fatica degli adulti e dell'entusiasmo dei giovani.
Il "viaggio della mernoria"è stato parte di quella fatica e di quell'entusiasmo.
Elisabetta Massera