Un convegno internazionale a Catania

Oltre 400 deportati siciliani

 

La collaborazione tra l'ateneo catanese e l'università di Versailles. Il parroco che definì "Pecorella smarrita" il superstite del Lager che tornava al paese. Il contributo alla Resistenza
Il 7 febbraio scorso ha avuto luogo a palazzo centrale dell'Università di Catania, la cerimonia di apertura della mostra "La liberazione dei campi di concentramento e il ritorno dei deportati". L'esperienza, maturata nel quadro di un interscambio culturale tra l'ateneo catanese e l'università di Versailles,è stata realizzata con un paziente lavoro di ricerca dagli studiosi francesi Marie Anne Matard e Edouard Lynch, e da un gruppo di loro studenti, invitati anch'essi a presenziare alla inaugurazione della esposizione catanese. Fino al 20 febbraio la ricca documentazione fotografica, ritraente toccanti momenti della vita dei deportati nei Lager e della loro liberazione, è rimasta aperta al pubblico. La partecipazione è stata numerosa sia nella serata inaugurale, sia nei giorni seguenti.
Dopo il saluto del rettore nell'Aula Magna, si sono aperti gli interventi con Rosario Mangiameli (docente di storia contemporanea). E sulla vicenda dello sterminio e sulla sua strana presenza nella nostra coscienza che egli si è interrogato.
I problemi nascono da una memoria storica intermittente, ravvisabile a singhiozzi: da anni fervidi di testimonianze e racconti ('45 - '47), si passa a lunghi periodi di oblio (gli anni '50). C'è sino al 1990, un movimento pendolare tra silenzio e parola, un incessante altalenare di rimozioni e ricordi. Dietro "l'amnesia collettiva" si nascondono ragioni politiche ed ideologiche; serpeggia però anche il "fastidio" di rievocare il mondo squinternato dalla seconda guerra mondiale, perché da esso, ormai, si vuole uscire. Il reduce, ansioso di consegnare alla società civile il racconto della propria esperienza, si scontra con un universo a sua volta devastato: non può esserci ascolto da parte di chi vuole inabissare, in remoti angoli della memoria, lo scotto di una guerra sofferta in prima persona. Lo sa bene Nunzio Di Francesco, siciliano imprigionato a Mauthausen a causa di un'attività resistenziale antinazista sul Montoso, in Piemonte, tra le file delle Brigate Garibaldi. Al racconto delle traversie dell'internamento e della liberazione seguono note amare del difficile reinserimento nella terra natia - Linguaglossa, un comune dell'Etna -: ad accoglierlo è un'atmosfera fredda, intrisa di mutrie. L'ostilità all'ascolto perdura nel tempo. Nello scritto autobiografico, il Costo della Libertà, egli annota: "Scrivere e pubblicare, ma per chi! La gente, specie i giovani, chiede fatti nuovi che offrano molto, tutto e subito. Nessuna ambizione dunque, preoccupato anche che il mio diario, semplice testimonianza di un sopravvissuto fra dodici milioni di vittime divorate dalla furia nazifascista nei campi di sterminio, venisse considerato "retorica di eroismo".
E ancora: "Per molti addirittura non è mai esistita la resistenza armata contro il nazifascismo europeo e si rendono fantasiosi i campi di concentramento e di sterminio".
Tesi negazionistiche a parte, prosegue il narratore, il discredito dell'esperienza resistenziale (presente un po' ovunque negli anni immediatamente successivi al 1945), assume in Sicilia un tono particolare. L'isola, che non ha materialmente avuto il tempo di concepire" la figura del partigiano (perché liberata dagli anglo-americani nel luglio del 1943), avverte come astrusi gli ideali maturati in Nunzio Di Francesco e in quanti ne hanno condiviso il processo di formazione culturale. "Pecorella smarrita", lo apostrofa il parroco di Linguaglossa, al suo riorno. Mentre certi suoi conoscenti, figli di possidenti separatisti, gli chiedono di riconoscere al fascismo di aver fatto del bene: si potevano lasciare le porte aperte!
La testimonianza di Di Francesco apre sul coinvolgimento della società siciliana nel fenomeno della deportazione. Per quanto la Sicilia sia stata marginale, per le vicende dell'occupazione alleata, conta un rilevante numero di deportati, oltre 400: militari sfollati dopo l'8 settembre, partigiani.
Anche Marie Anne Matard Bonucci (docente di storia contemporanea a Versailles) si sofferma sulla questione dell'accoglienza riservata ai rimpatriati. Piovono domande inquietanti: quale fu la reazione della società francese ed europea alla scoperta dei campi? Quale l'accoglienza riservata ai reduci? Come vennero propagate le informazioni? La società civile ha veramente ascoltato? Ne viene fuori un quadro composito, poco collimante con la diffusa tendenza ad appiattire la realtà, semplificandola. Dopo lo scandalo dei campi di concentramento e di sterminio, c'è l'attitudine dei media (tra il 1945 ed il 1947) a confondere la percezione del fenomeno: le fotografie sono prive di didascalie, l'assenza di una verbalizzazione esplicativa restituisce squarci approssimativi della realtà. E chi ascolta, investito da simboli e stereotipi piuttosto che da puntuali cronistorie, finisce col ritenere "incredibili" ed "inverosimili" i fatti narratigli. Non può stupire, allora, che i deportati, al loro rientro, oltre che con un indistinto rifiuto ad ascoltare, si scontrino con la precisa sensazione, da parte di un intero assetto sociale, che il loro racconto non sia veritiero.
Ultimo a parlare è Felice Rappazzo, che commenta il libro Diario di un deportato di Antonino Garufi, carabiniere passato alla Resistenza in modo del tutto casuale. La sua è un,esperienza inedita, emarginata, ancora meno ascoltata delle altre. Liberato a Buchenwald, nella sorda atmosfera che lo accoglie in Sicilia, egli comincia a scrivere e si impone. Il suo punto di vista è mediato da un linguaggio tutto orale e le parole, espresse in forma vernacolare, guidano l'analisi cognitiva del mondo scoperto nel Lager. Il suo conoscere è quotidiano, induttivo: parte dagli oggetti per arrivare sino ai termini che li designano. Come un bambino, profano nel nominare e collocare astrattamente ogni cosa, Garufi si allena nell'esercizio della verbalizzazione e scopre un nuovo vocabolario. Il suo narrare è rapido, ossessivo, evocativo della velocità della vita di Buchenwald, ma la semplicità d'animo con cui affronta l'esperienza della deportazione è tale da sottrarlo all'indurimento: non mangia cadaveri, non rinuncia a considerare le S.S. degli esseri umani, spezza la rigidità dei ruoli. E su Garufi, sul suo chiamare "papà" una sentinella nazista, si chiude la conferenza.
Nel frattempo a Troina un sopravvissuto ai Lager nazisti, suggestionato dalle immagini della mostra trasmesse in televisione, decide di recarsi a Catania qualche giorno dopo. Giunto nella caotica città, chiede informazioni agli ignari vigili urbani. Gira e rigira, arriva finalmente a destinazione.
E' un anziano contadino dal fisico asciutto e porta con sé una pubblicazione illustrata, ottenuta in Germania subito dopo la liberazione; la sfoglia e ne confronta le immagini con quelle della mostra: la sua antica ansia di raccontare e di confrontarsi, ora trova degli interlocutori attenti in una scolaresca che sta seguendo, a Palazzo dell'Università, la sequenza delle foto, offerte in visione.

Giovanna D'Amico