Il
futuro della memoria.
Come trasmettere l'inimmaginabile
a chi non l'ha vissuto?
ENZO COLLOTTI
- Quest'anno cinquantenario in cui
si ricordano i giorni della liberazione e della fine della seconda guerra
mondiale pone a noi tutti, in tutta Europa, una serie di problemi politici
e storici di grande importanza, che sollecitano la nostra riflessione
sul tema della memoria, che è al centro di questa giornata di
lavoro e del vostro congresso. Già l'anno scorso ricorrenze storiche
strettamente legate alle sorti della seconda guerra mondiale - il cinquantenario
dello sbarco in Normandia -, avvenimenti
culturali - la programmazione del film Schindler's list -, eventi politici,
come le elezioni italiane, che per la prima volta hanno rotto il tabù
di portare al governo in uno dei paesi della Comunità europea
una forza direttamente erede della tradizione fascista, sollevando motivo
di allarme e dando un significato nuovo alla stessa celebrazione del
25 aprile, hanno sottolineato la drammaticità e la delicatezza
del momento politico-culturale che stiamo attraversando.
Ossia, una fase di passaggio tra vecchi e nuovi assestamenti politici
che può rappresentare un momento fecondo ai fini della presa
di coscienza storica dei fatti che ci lasciamo alle spalle, ma può
aprire anche, per stanchezza o per consapevole disegno politico, l'avvio
di un processo di liquidazione di una memoria storica per ubbidire a
logiche politiche e a sviluppi di ornologazione di un'opinione pubblica
schiacciata tutta sul presente, e sulla spettacolarizzazione del presente,
in cui non trovano più posto analisi dífferenziate. Approfittando
della crisi politica in atto su tutto il continente si è aperto
un processo all'antifascismo, che lungi dal costituire un contributo
e un bilancio critico della funzione che esso ha assolto sul piano culturale
e politico nel corso dei decenni passati, con cambiamenti profondi in
contesti e momenti politici assai diversi, tende semplicemente alla
sua liquidazione. In questo senso, e non nel senso della necessità
di aggiornare costantemente le nostre conoscenze, la parola d'ordine
della necessità di riscrivere la storia di questi decenni fa
parte del bagaglio programmatico di quelli che Vidal-Naquet ha definito
"gli assassini della memoria" (1). Anche
quest'anno si è aperto all'insegna del ricordo di eventi che
non possono non essere presenti alla mente di tutti noi: il cinquantenario
della liberazione di Auschwitz e del
bombardamento distruttivo della città di Dresda. E nei prossimi
mesi e nelle prossime settimane le occasioni cinquantenarie non si conteranno
più. Il cumularsi di queste occasioni contiene in sé potenzialità
contraddittorie. Da una parte, rischia di ingenerare assuefazione, per
la ripetitività dei fatti rituali, dei discorsi celebrativi,
per la riproposizione delle stesse immagini che la rete dei mezzi di
comunicazione amplifica e inflaziona sino a svalutarne totalmente il
significato e lo stesso impatto visivo. Dall'altra, può e deve
sollecitare una riflessione sul valore delle esperienze che sono state
compiute nel corso ormai di un cinquantennio.
Nessun paese d'Europa è, si può dire, immune dal processo
di elaborazione della memoria che è stato stimolato fisiologicamente
dal passare dei decenni e dal naturale ricambio delle generazioni. Ma
non dobbiamo neppure sottovalutare che i grandi fatti epocali che stanno
trasformando il corso della nostra storia, in particolare a partire
dai cambiamenti intervenuti lungo il 1989 e ancora non pervenuti ad
un assestamento definitivo in quasi nessuno dei paesi che ne sono stati
coinvolti, hanno inciso profondamente sul nostro modo di considerare
non la natura dell'esperienza del fascismo e del nazismo, ma certo le
esperienze avviate dopo il 1945. Se ci guardiamo intorno vediamo facilmente
come il travaglio della democrazia, sia nei paesi dell'occidenteeuropeo,
in cui il sistema democratico-parlamentare richiede nuova vitalità
e di essere associato più strettamente a istanze di carattere
sociale, sia nei paesi dell'Europa centroorientale, che questo sistema
stanno appena adesso sperimentando, non possa essere dissociato dal
recupero del patrimonio di valori comuni che trae la sua origine dalla
reazione delle popolazioni dell'Europa invasa al tentativo delle potenze
dell'Asse di imporre un Nuovo Ordine fascista e nazista.
Naturalmente, neppure questo recupero rappresenta un processo indolore.
Nella Germania unificata le discussioni sulla ristrutturazione dei luoghi
memoriali che esistevano nella sua parte orientale ha rappresentato
uno specchio fedele di queste difficoltà: esse sono andate ben
oltre la valutazíone critica della gestione che dei vecchi campi
di concentramento aveva fatto la DDR, per investire direttamente il
problema della Resistenza al nazismo e della legittimità nel
suo ambito della componente comunista. La diffamazione dell'antifascismo,
identificato con lo stalinismo, si è conferinato uno dei cavalli
di battaglia di una destra scatenata
nella falsificazione della storia (2).
In Polonia, la polemica è troppo recente, il ricordo di Auschwitz
ha risollevato il problema della "polonizzazione"
del campo di sterminio e del riconoscimento, per contro, di
Auschwitz come epicentro del genocidio degli
ebrei, laddove la negligenza e la disinvoltura
dei politici hanno potuto alimentare il
sospetto che anche in questa occasione sopravvivessero
residui di un vecchio antisemitismo. Ma in
Polonia la memoria storica vuol dire anche consapevolezza
della divisione della Polonia tra partigiani del governo di
Londra e partigiani del go < verno di Lublino,
come proiezione dello scontro tra le potenze
per l'egemonia sulla Polonia e sull'Europa
centrale: il ricordo della sorte dell'insurrezione
di Varsavia ha fornito l'ennesima riprova di questa realtà.
In Francia la.discussione tuttora viva
sull'esperienza di Vichy continua a dividere
il Paese. Il ritardo con il quale politica e giustizia hanno sollevato
il velo delle responsabilità, non solo in generale per il collaborazionismo,
ma in termini più
specifici per il contributo diretto di autorità ed uomini francesi
alla deportazione degli ebrei, non poteva che alimentare nuovi dubbi
e contribuire da una parte a stimolare l'approfondimento di lati tuttora
oscuri dei comportamenti di settori importanti della società
e di uomini politici anche di primo piano.
t stata la celebrazione del processo Touvier, a
distanza di sette anni dal processo Barbie, a riaprire una delle ferite
non rimarginate della storia di Vichy. Anzi, fra i misteri di Parigi,
uno dei capitoli più oscuri e più complicati è
proprio questo, in cui domina la parte svolta dalla polizia di Vichy
nel prestarsi ad eseguire ordini dei tedeschi o addirittura a prevenirli
e ad attuare autonomamente misure e pratiche
destinate a sfociare nella cor-responsabílità nel genocidio.
Nello stesso contesto la ricerca delle ragioni che hanno consentito
a Touvier di occultare le proprie responsabilità per decenni
ha sollevato il velo delle omertà, delle omissioni, dei favoreggiamenti
che chiamano in causa le istituzioni della Quarta e della Quinta Repubblica,
magistratura, polizia, ministeri e altri organismi governativi, financo
la presidenza della repubblica, ma anche spezzoni importanti della società,
come la Chiesa cattolica, cui si imputa la copertura data per malintese
ragioni caritative a personaggi come Touvier.
Insomma, l'affare Touvier ha risollevato decenni di rimozione e di equivoci
pronunciamenti sul passato di Vichy. Alla vigilia del processo il parigino
"Le Monde" scriveva: "Questo processo sarà anche quello della
memoria ' ritrovata. Si toccherà sino a qual punto l'amnesia
collettiva dei francesi è svanita" (3). Non c'è molto
da aggiungere al commento dell'autorevole quotidiano.
La situazione dell'Austria ci porta a considerare altri aspetti del
travaglio che stiamo vivendo. L'Austria, come altri paesi del nostro
continente, è stata ed è teatro di truci episodi di intolleranza
e di razzismo: l'uccisione di quattro zingari nelle settimane scorse
è stato il momento culminante di una campagna d'odio che non
è dissociabile dai successi elettorali della destra di Jórg
Haider, pangermanista e xenofoba. Come altrove in Europa l'estrema destra
trae profitto dalla debolezza e dai difetti del sistema democratico:
da una parte dal prepotere dei partiti che tendono a monopolizzare tutti
gli spazi della società cìvile; dall'altra, la corruzione
derivante dalla sempre maggiore commistione tra potere politico e affari,
che non ha risparmiato si può dire nessun'area del nostro continente.
Ma trae profitto anche da problemi sociali
reali, dal problema dell'immigrazione, in Austria immediatamente ingigantito
dalla vicinanza con i paesi dell'Europa orientale in una difficile
transizione e soprattutto dalla vicinanza con zone di guerra nella ex
Jugoslavia. Il problema materiale dei rifugiati e le difficoltà
non solo materiali dell'incontro tra culture diverse è uno dei
terreni di coltura più fertili per la reviviscenza di nuovi nazionalismi
e di nuovi razzismi. Proprio per questa
ragione è particolarmente significativo che in Austria, un paese
così esposto ai fenomeni del razzismo e dell'intolleranza, sia
stato riaperto il problema del recupero e della conservazione del campo
di concentramento di Mauthausen, il luogo memoriale di maggior significato
storico e simbolico che si trovi sul territorio dell'odierna repubblica
austriaca, come atto rivolto non soltanto a conservare le tracce dei
crimini commessi dal nazismo e doveroso gesto di omaggio a coloro che
ne furono vittime ma anche come consapevole contributo alla conservazione
della memoria nei confronti delle generazioni più giovani (4).
Consentitemi di soffermarmi brevemente
sull'esperienza della problematica sollevata dal recupero di Mauthausen,
alla quale mi sono trovato a contribuire come membro della commissione
di storici istituita dal ministero della cultura austriaco per studiare
le forme più idonee alla conservazione materiale e all'utilizzazione
culturale del vecchio campo di concentramento, che, come voi sapete
dopo l'area di Auschwitz e Birkenau, costituisce l'insieme più
ampio di un'area concentrazionaria sopravvissuta: quella anche in cui
più intatto si presenta il complesso delle opere architettoniche
specificamente concentrazionarie. Ora,
la conservazione di Mauthausen, oltre al significato di per sé
evidente, vuole essere una risposta in primo luogo ai molti propagandisti
neonazisti che ne vogliono negare se non l'esistenza almeno le caratteristiche
di campo di sterminio, contestando ad esempio l'esistenza della camera
a gas (5). Vuole essere anche il tentativo, soprattutto nei confronti
delle generazioni future, di restituire a queste strutture, destinate
a diventare sempre più una delle forme di una archeologia contemporanea,
la vitalità di promozione di iniziative di studio sulla realtà
non solo del sistema concentrazionario ma dei regimi fascista e nazista
nel cui contesto fu possibile che esistessero luoghi come Mauthausen,
con gli enormi problemi di ricostruzione storica e interpretativi che
tutto questo comporta. Ricostruire la
storia di Mauthausen, come premessa per motivare la necessità
della sua conservazione e del suo potenziamento in quanto luogo simbolico
e memoriale, significa infatti ricostruire le sofferenze dei deportati
ma anche il contesto che quelle sofferenze permise. Da una parte, perciò
il regime nazista, nel quale il sistema concentrazionario non era una
eccezione o una escrezione, ma una componente organica dell-ordine del
terrore", come è stato da ultimo analizzato nell'importante opera
di Wolfgang Sofsky, opportunamente pubblicata in versione italiana (6).
Dall'altra, il contesto dell'area e della popolazione circostante che,
come già verificato per altre analoghe aree, visse con relativa
indifferenza quando non, addirittura, con ostilità la presenza
del campo di concentramento, ribadendo di fatto la solidarietà
della popolazione con la guarnigione
del Lager, come ci ha ricordato di recente la ricerca con la quale uno
storico americano, Horwitz, ha voluto ricostruire le reazioni della
popolazione della vicina località all'esistenza del campo di
concentramento negli anni dal 1938 al 1945
e -, aspetto non meno interessante - il modo in cui la stessa popolazione
convisse con la sua memoria dopo il 1945. Le vicende della ricezione
del campo non solo fanno parte integrante della sua storia, ma sono
una parte importante del problema di come fu elaborata dopo l'abbattimento
del regime nazista la memoria della sua esperienza (7).
Tra i punti più importanti emersi dal lavoro degli storici su
Mauthausen uno è la conferma della dimensione internazionale
dell'esperienza concentrazionaria e della necessità che questa
realtà trovi adeguata espressione anche in forme
di intemazionalizzazione della memoria
(per esempio anche nel senso di affidarne in futuro la gestione a una
fondazione di carattere internazionale, quale che ne fosse la forma
ritenuta più opportuna). Una seconda affermazione importante
risiede nella necessità di tenere distinta, e di sottolineame
anzi la distinzione, l'area del campo da quella delle infrastrutture
necessarie per garantime la valorizzazione documentario-culturale, in
modo da evitare ogni manomissione dello stato originario del Lager.
Una esigenza di ordine filologico, quest'ultima, essenziale anche per
sottrarre argomenti alla polemica neonazista che, oltre a negare l'esistenza
della camera a gas, tende a negare alla radice l'esistenza stessa del
Lager come luogo di segregazione e di persecuzione, attribuendo alla
gestione che ne è stata fatta dopo il 1945, dagli americani prima,
dai sovietici dopo e infine dagli stessi austriaci, modifiche tali da
avere alterato la natura e la riconoscibilità originarie del
Lager. Non va taciuto, infine, che la
preoccupazione di garantire la continuità del lavoro storico
ed educativo per il futuro intorno al campo di Mauthausen non può
essere dissociata dalla previsione, del
tutto fisiologica, che con il passare degli anni sempre meno si potrà
contare sul prezioso contributo degli ex internati, ai quali si deve
essenzialmente la conservazione di quanto materialmente sussiste delle
vecchie strutture e soprattutto il lavoro che in quasi cinquant'anni
è stato svolto di documentazione e di accompagnamento delle visite
al campo. Ciò comporta non soltanto il rinnovamento e l'aggiornamento,
secondo metodiche e punti di vista storiografici anche nuovi, delle
attrezzature espositive e di supporto per la divulgazione della realtà
del Lager, ma anche la formazione e la preparazione di un nuovo tipo
di personale, fondamentalmente legato al mondo della ricerca e delle
istituzioni scolastiche e culturali, specificamente idoneo per
la visita sui luoghi, vale a dire non solo Mauthausen ma anche la rete
dei campi ad esso collegata (da Gusen a Melk ad Hartheim) (8).
Credo di non dovermi scusare se mi sono soffermato
sull'esperienza di Mauthausen. Mi pare chiaro che ho inteso sottovalutare
nessuna delle altre realtà concentrazionarie che hanno visto
la deportazione di italiani, né Buchenwald, né Dachau,
né Ravensbriick, né altre ancora. Ma non dobbiamo neanche
dimenticare il forte significato che ha avuto Mauthausen nel quadro
della deportazione dall'Italia, poiché circa il 25 per cento
di tutti i deportati dall'Italia - se si eccettuano, beninteso gli ebrei
- sono finiti a Mauthausen, ossia il contingente più numeroso
dei deportati italiani. D'altronde, l'occasione
del lavoro svolto per Mauthausen può servire per richiamare l'attenzione
su quanto si deve fare anche da noi per assicurare in primo luogo le
tracce materiali dei luoghi della deportazione, da Fossoli a Ferramonti,
ai molti altri luoghi dei quali spesso conosciamo ancor soltanto il
nome. Un riferimento che va fatto non
soltanto perché il primo passo di ogni strategia della memoria
non può che essere la lotta contro l'oblio, non soltanto l'oblio
del tempo ma anche quello organizzato dagli uomini, ma anche perché
non possiamo concentrare la nostra attenzione soltanto su quanto è
accaduto dopo l'8 settembre del l943.
Così in molti casi il regime di Vichy è servito da alibi
per distogliere l'attenzione dai comportamenti delle autorità
francesi della Terza Repubblica che avevano internato i rifugiati
antinazisti tedeschi spesso poi caduti nelle mani della Wegrmacht e
delle SS, come sottolineato di recente da Alfred Grosser (9), l'occupazione
tedesca dopo l'armistizio del 1943 non può servire da alibi né
alimentare rimozioni sui crimini e sulle malefatte del regime fascista.
Troppo spesso si dimentica che sono esistiti Ferramonti e diecine dì
altri campi minori di internamento aperti dai fascisti assai prima del
1943. Ferramonti fu liberata dagli alleati dopo lo sbarco in Calabria
all'inizio di settembre del 1943 e gli internati si salvarono dalla
deportazione, ma non fu merito certo dei fascisti che ve li avevano
rinchiusi (10). Così come troppo
spesso si dimentica che in questi campi italiani erano rinchiusi ebrei
ma anche molti stranieri, jugoslavi, greci, albanesi, di territori che
erano stati invasi dall'Italia e che subirono non soltanto la repressione
tedesca ma anche una repressione da parte di forze italiane che spesso
non fu meno dura di quella dei tedeschi. Le vicende dell'occupazione
italiana in Balcania, e soprattutto in Jugoslavia, sono da questo punto
di vista probanti. Non dimentichiamo che, a differenza di quanto è
avvenuto nella stessa Germania, nessun processo per crimini commessi
dalle forze di occupazione italiane nei Balcani è stato mai celebrato
in Italia (11). Tutto ciò per
dire quanto sono sospetti tutti i tentativi di diffondere parole d'ordine
come quelle della pacificazione o della riconciliazione nazionale, che
in realtà, tendendo a livellare la sorte di tutte le vittime
della guerra e ad azzerare la memoria, mirano ad equiparare valori ineguagliabili
e a mettere sullo stesso piano esperienze di segno assai diverso, spogliandole
in questo modo dei loro specifici significati e demotivando il sacrificio
delle stesse vittime. Bisogna però essere anche consapevoli che
si è compiuta in questi anni una rottura della memoria storica
che non è dovuta soltanto al normale ricambio delle generazionì.
NE pare che i fattori fondamentali alla base di questa rottura siano
almeno tre: 1) un mutamento di prospettive politiche a livello europeo
se non addirittura planetario; 2) un mutamento delle forme della comunicazione;
3) il mutamento generazionale. Alla base
di tutte e tre queste forme di rottura si può collocare l'interruzione
della trasmissione di memoria, che in passato avveniva di padre in figlio,
passando in via prioritaria attraverso la memoria familiare. Questo
canale è stato messo in crisi non soltanto dalla graduale e fisiologica
scomparsa dei padri, ma anche dall'irrompere di modi diversi della comunicazione
e dello stesso modo di fare politica. Il momento della memoria storica
come patrimonio collettivo era stato coltivato da movimenti e partiti
con forti connotati ideologici; il declino di queste forme politiche
ha implicato anche il declino di questi contenuti, l'attenuazione di
momenti conflittuali e della stessa rappresentazione delle contrapposizioni
anche violente che la Resistenza e la lotta politica del dopoguerra
avevano comportato. Paradossalmente, nel momento in cui si generalizza
la coscienza che la Resistenza è stata anche, non solo, "guerra
civile", si accresce la tendenza a stemperare la contrapposizione di
atteggiamenti politici, a ricercare unità politiche che tendono
a proiettare anche sul passato una immagine edulcorata di lotte e conflitti.
La generazione che ha combattuto nell'antifascismo
e nella Resistenza e che ha conosciuto l'esperienza concentrazionaria
non deve meravigliarsi che le nuove generazioni possano considerare
gli eventi che l'hanno vista protagonista con occhi diversi.
E' stato posto e si pone il problema,
che è anche un problema epistemologico e di metodo, se siano
trasmissibili esperienze abnormi come quelle della deportazione in persone
che non ne sono state partecipi e più ancora in persone appartenenti
a generazioni istruite a perdere anche il contatto fisico con i protagonisti
dell'esperienza concentrazionaria. Se
già è stato difficile fare parte di questa esperienza
ai contemporanei, come sarà possibile nei confronti di chi non
è più neppure contemporaneo?
E ancora: "Come trasmettere l'inimmaginabile"?
t questo l'interrogativo che torna in molti dibattiti, anche recenti
(12). Ma a meno di non volere paradossalmente accettare che questa memoria
si estingua con la scomparsa fisica dei loro depositari, dobbiamo fare
di tutto per tentare una risposta. Cerchiamo di dare una risposta pragmatica.
Vale a dire dobbiamo accettare che la trasmissione di questa memoria,
per imperfetta che possa essere, avvenga comunque anche a costo di perdere
una serie di emozioni e di sfumature che
potevano essere avvertite ed espresse soltanto da coloro che ne avevano
direttamente vissuto la percezione. Meglio comunque una memoria spogliata
inevitabilmente dei vissuti esistenziali che il rifiuto o il deperimento
e l'estinzione della memoria. Sulla distanza
del tempo, per le generazioni più
giovani l'esperienza resistenziale non potrà non acquistare un
timbro diverso, nella percezione comune, di quello vissuto da chi quella
esperienza ha direttamente attraversato ( ... ). La ricostruzione storica,
che comunque non può essere soltanto il risultato di carte d'archivio
che spesso non esistono neppure, il racconto di questi fatti e di queste
esperienze da parte di chi non le ha direttamente vissute saranno il
solo modo del quale le generazioni più giovani e ancor più
quelle future disporranno per avere presente la memoria del 1943-45,
Nulla potrà impedire che i giovani si diano strumenti di conoscenza
diversi da quelli che noi conosciamo e che noi abbiamo contribuito a
creare. Questo non significa però che le generazioni più
anziane non abbiano più nulla da dire.
Il ruolo dei resistenti o degli ex deportati o degli ex internati militari
nella formazione della coscienza civile
dei nostri popoW è stato fondamentale, come portatori di una
testimonianza essenziale per la conservazione della memoria ma anche
come protagonisti della trasmissione di valori, come quello della pace
o il rispetto per i diritti umani. Oggi questo ruolo si è indubbiamente
affievolito in una società più sensibile ad altri stimoli,
ad altre esigenze, che anela a una memoria collettiva più accomodante,
meno carica di messaggi impegnativi che sembrano ricordare in misura
eccessiva una fase drammatica della storia dell'umanità. Come
se oggi, sia pure su scala diversa e
in forme per così dire miniaturizzate, non stessimo vivendo esperienze
diffuse di guerre, di microconflittualità, di esasperazioni nazionalistiche
e razziste; ma viviamo anche in un mondo meno impermeabile alla circolazione
di merci e di persone, alla omologazione di idee e di comportamenti,
un mondo tendenzialmente unificato, al di là di ogni barriera,
dai messaggi di una comunicazione sempre più totale e totalizzante.
Dobbiamo domandarci anche se il rifiuto
di una certa me moria da parte delle
generazioni più giovani sia da intendere soltanto come rigetto
di una parte scomoda della nostra storia, la cui responsabifità
non può ricadere interamente su di esse, o se nella trasmissione
di quella memoria non vi siano stati momenti di enfatizzazione retorica,
mitologica appunto, che alla realtà
di esperienze e di realizzazioni hanno sovrapposto un immaginario completamente
avulso dallo stato della situazione reale. Separare la patina retorica
dalla testimonianza delle esperienze reali, e alla luce di questo criterio
esaminare anche il lavoro di trasmissione della memoria che è
stato compiuto nei decenni passati, è uno dei presupposti fondamentali
per conservare credibilità al ricordo e ai valori di quelle esperienze.
Del pari, è necessario impostare
su basi scientificamente sicure la raccolta dei materiali relativi alla
deportazione. Ricordiamo che non esiste a tutt'oggi una ricostruzione
storica della deportazione dall'Italia. Dobbiamo essere grati a quanti
come Lifiana Picciotto Fargion, Klaus Voigt e da ultimo Italo Tibaldi
hanno contribuito a porre le basi di questa storia (13). Ricordiamo
le molte memorie che possediamo e sulle quali Anna Bravo e Daniele Jalla
hanno avviato un prezioso lavoro di sistemazione e di rielaborazione
critica (14). Ma il vero lavoro storico è appena agli inizi.
E poiché per il futuro sarà soprattutto il lavoro degli
storici che consentirà di trasmettere alle generazioni future
la memoria della Resistenza e della deportazione, sarà necessario
per prima cosa assicurare la conservazione dei materiali documentari
e delle testimonianze e la loro accessibilità. Il rigore nella
ricostruzione storica non è soltanto una questione di metodo
e di correttezza professionale: esso si rivela anche come una delle
armi più efficaci nella lotta
contro il revisionismo in tutte le sue
gradazioni e in tutte le sue versioni. Non possiamo nasconderci che
partiamo con un enorme ritardo e forse dovremmo anche chiederci perché
le vicende della deportazione dall'Italia abbiano prodotto una grande
ricchezza memorialistica, opere di carattere testimoniale e letterario
di valore mondiale come quelle di Primo Levi, ma sinora un numero ben
scarso di lavori con approccio più specificamente storico. Ciò
deporrebbe a favore di una limitata risonanza dell'esperienza della
deportazione, nel senso che essa non è entrata nel circuito degli
interessi di una cerchia più larga di studiosi, è rimasta
circoscritta afla cerchia di coloro che l'hanno personalmente vissuta
e di un'area poco più larga di amici, conoscenti, simpatizzanti.
Lo stesso scarso interesse che le istituzioni
dello stato hanno mostrato per queste ed analoghe categorie di soggetti,
gli ex internati militari, gli ex combattenti nella guerra di Spagna,
gli stessi ex prigionieri di guerra, contribuisce a spiegare la relativa
mancanza di attenzione da parte anche della critica storica.
Il richiamo alla necessità di rinnovare
la memoria dell'esperienza della deportazione non vuole avere certo
un sapore corporativo. Esso nasce dall'esigenza di richiamare i valori
che sono stati alla sua origine e di rievocare l'operato delle minoranze
della Resistenza. E mancato soprattutto nello sforzo di tenere vivi
questi valori come costitutivi dell'identità democratica della
nostra repubblica l'apporto delle istituzioni scolastiche ed educative.
Questo è sicuramente vero per l'Italia; ma è vero anche
per paesi nei quali istituzioni scientifiche hanno operato in maniera
molto più intensa che in Italia senza superare però l'isolamento
dall'opinione pubblica e senza provocare perciò una risonanza
proporzionata alla qualità del lavoro svolto. Anche qui, cioè,
è mancata la mediazione conoscitiva e divulgativa senza la quale
il lavoro scientifico rimane circoscritto non solo nella fase della
sua elaborazione, come è inevitabile che sia, ma anche nella
divulgazione dei suoi esiti ad una cerchia molto ristretta di persone.
Bisogna fare appello al lavoro della
scuola e delle istituzioni educative ad ogni livello come momento centrale
di una strategia della memoria. Listituzione scolastica è l'unica
che può assicurare istituzionalmente una conoscenza diffusa della
storia contemporanea. Non si tratta di fare appello ad alcun indottrinamento:
su questo bisogna essere estremamente espliciti. Ma la conoscenza della
nostra storia ormai non più
recentissima, e della storia d'Europa nel cui
contesto soltanto gli sviluppi dell'Italia sono comprensibili, deve
diventare uno dei punti di gravità dell'insegnamento della storia
contemporanea. Questo non presuppone un modo unico di rappresentare
la storia contemporanea - proprio il convegno di Arezzo dello scorso
anno sulla memoria dei crimini nazisti ha dato la misura della complessità
e della problematicità con cui si affrontano e si confrontano
nell'universo delle singole nazioni, o addirittura delle singole comunità
locali, le molteplici versioni di uno stesso episodio visto da angolature
politiche e umane diverse. La conoscenza storica non può non
essere una conoscenza critica: essa è inquietante ed entra a
fare parte della costruzione di una coscienza civile proprio in quanto
espressione critica, esercizio e sollecitazione all'esercizio della
ragione critica. La conoscenza storica
diventa antidoto contro il conformismo e i processi di
omologazione delle coscienze proprio per la costante irrequietezza critica
che la spinge a rinnovarsi continuamente nel confronto con le fonti
e con l'aggiornamento del lavoro interpretativo. Non esiste una conoscenza
che sia data una volta per sempre. La
conoscenza storica è strumento essenziale per ogni coscienza
civile proprio in quanto conoscenza critica. La conoscenza storica non
è tutto, ma da essa non si può prescindere nella formazione
di una coscienza civile. Si tratta di
un problema che non riguarda soltanto la percezione critica del passato,
esso non è meno importante sotto il profilo della lettura dei
fatti contemporanei e dei comportamenti da assumere di fronte ad essi.
La conoscenza critica del passato non implica automaticamente che si
possano trasferire nel presente valutazioni nate con riferimento ad
altri contesti o che si possano stabilire sempre e dappertutto facili
analogie. Essa però è un formidabile strumento analiticci
ed interpretativo perché acuisce
la sensibilità e la reattività di fronte a fenomeni anche
del presente. Non saremmo così reattivi di fronte ai ripetuti
episodi di rinnovato razzismo se non fossimo avvertiti di quali conseguenze
ha avuto per l'Europa il razzismo dei regimi fascisti; non saremmo così
reattivi di fronte al divampare di nuove pulizie etniche se non fossimo
avvertiti di quali lutti e di quali conseguenze ha avuto il tentativo
di imporTe il Nuovo Ordine Europeo di marca fascista e nazista.
Se è vero che una memoria collettiva è
parte dell'identità di una nazione
e di una società, è cioè uno dei fondamenti di
un patto collettivo nella misura in cui ci si riconosce in una storia
comune e come tale percepita, non c'è dubbio che la memoria della
Resistenza e di ciò che ha significato il rifiuto del progetto
di Nuovo Ordine deve restare uno dei fondamenti della nostra convivenza.
Una convivenza fatta di eguaglianza e di rispetto delle particolarità
nazionali e delle tradizioni culturali delle parti componenti, non per
riprodurre nuovi compartimenti stagni, ma per alimentare quell'interscambio
politico e culturale senza il quale il rispetto reciproco risulta soltanto
apparente e si risolve nella creazione di nuove chiusure autarchiche.
Intervento il 10 marzo 1995 all'XI Congresso
nazionale dell'Aned a Prato.
(1) facciamo riferimento all'edizione italiana
di R VIDAL-NAQUET. Gli assassini della
memoria. Roma. Editori Riuniti. 1993.
(2) si v. al riguardo le considerazioni generali
nell'articolo di PHILIPPE VIDELIER. De
la collaboration au "révisionnisme". A peine masqués,
s'avancent lesfalsificateurs du passé, in "Le Monde Diplomatique",
gennaio 1994, pp. 16-17. Per uno sguardo su diversi casi nazionali si
v. anche i saggi di Politiche della memoria. Roma. Manifestolibri, 1993,
con contributi di Calchi Novati, Canfora, Collotti, Flores, Gallerano,
Passerini.
(3) dal dossier Paul Touvier, un collaborateur
dans l'Histoire, in "Le Monde", 17 marzo 1994.
(4) estensibili a un piano più generale
per la situazione austriaca appaiono le considerazioni svolte nell'intervento
di K. STUHLPFARRER. La Risiera di
S. Sabba e la memoria collettiva austriaca, in "Qualestoria", dicembre
1994, pp. 137-142.
(5) a ciò doveva servire tra l'altro il
cosiddetto documento Lachout su cui si v. i contributi di F. Freund
e B. Bailer-Galanda nel volume a cura del Dokurnentationsarchiv des
ósterreichischen Widerstandes e del Bundesministerium fúr
Unterricht und Kunst Amoklauf gegen
die Wirklichkeit. NS-Verbrechen und "revisionistische" Geschichtsschreibung.
Wien. 1991; tutto il volume è una delle più puntuali
confutazioni delle tesi revisioniste e negazioníste.
(6) si v. W. SOFSKY.
L'ordine del terrore. Bari. Laterza. 1995.
(7) cfr. G. J. HORWITZ.
All'ombra della'morte. La vita quotidiana attorno al campo di Mauthausen.
Padova. Marsilio. 1994.
(8) ho fatto riferimento nel testo ai lavori
della commissione di esperti, della quale ho fatto parte, che nel marzo
del 1995 ha presentato le sue conclusioni e le sue proposte al Ministero
federale austriaco per l'istruzíone e le arti, che ne aveva promosso
l'ínsediamento.
(9) nell'intervento di A. GROSSER. Du
bon usage de la memoire, nel fase. Juger
sous Vichy della rivista "Le genre humain", novembre 1994, pp. 107-117.
E in precedenza dello stesso Grosser si v. anche Le crìme
et la mémoire. Paris. Flammarion. 1989.
(10) per la vicenda e la problematica al riguardo
si v. C.S. CAPOGRECO. Ferramontí.
La vita e gli uomini del più grande campo d'internamento fascista
(1940-1945). Firenze. Giuntina. 1987.
(11) sull'argomento in generale rinvio al mio
contributo sulla Repressione italiana
nei Balcani in corso di pubblicazione nei materiali del convegno
di Arezzo sui crimini nazisti (presso l'editore Giunti).
(12) un cospicuo esempio nella riflessione svolta
in forma di dialogo tra Jorge Semprun e Alain Finkielkraut sotto il
tìtolo Comment transmettre
l'inimaginable? ne "L'Express", 26 gennaio 1995, pp. 46-49.
(13) facciamo riferimento a: L. PICCIOTTO FARGION.
Il libro della memoria. Gli Ebrei
deportati dall'Italia (1943-1945). Milano. Mursia. 1991; K. VOIGT
Il rifugio precario. Gli esuli in Italia
dal 1933 al 1945. Firenze.
La Nuova Italia. 1993: con questo titolo è uscito intanto il
primo dei due volumi dei quali si compone l'opera; il secondo volume,
che affronta specificamente il periodo posteriore all'armístizio
del 1943 è in corso di traduzione; I. TIBALDI. Compagni di
viaggio. Dall'Italia ai Lager nazisti. I ,,trasporti" dei deportati
1943-1945. Milano. Angeli. 1994 (Consiglio regionale del Piemonte
- Aned).
(14) A. BRAVO - D. JALLA.
Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia
1944-1993. Milano. Angeli. 1994 (Consiglio regionale del Piemonte
- Aned).
ITALO TIBALDI
- Devo dire al prof. Collotti soltanto un ringraziamento piccino piccino,
e una frase sola: aiutaci a difendere la storia dalla cattiva memoria.
Grazie. Noi ci troveremo quest'anno,
come sempre, in un calendario molto denso di manifestazioni; saremo
alla Risiera il 26 marzo, ad Auschwitz
il 4 e 7 aprile, a Buchenwald il 9 aprile, a Sachsenhausen il 22 aprile,
a Ravensbrück il 23, e analogamente a Flossenburg, a Bolzano il 30
aprile, a Dachau il 30, a Gusen il 5 maggio, con un simpaticissimo
incontro con i liberatori americani, a Stein il 6 maggio, a Ebensee
il 6 maggio con rinnovato incontro con gli amici di Ebensee e con
gli americani che ci hanno liberato allora, a Mauthausen il 7 maggio,
a Fossoli il 9 luglio. Ma per fare che cosa? Per ricordare quelli
che sono là, e allora noi li ricordiamo adesso tutti assieme,
tutti questi nostri compagni che abbiamo lasciato là. Uniamoci
in un momento di raccoglimento per tutti questi nostri compagni che
abbiamo lasciato. L'orrore dello sterminio
nazista non conosce confini, quei luoghi appartengono all'umanità,
di noi tutti. Adesso la parola a Paola Rosati, Assessore alla Cultura
del Comune di Carmignano che ci ospita.
PAOLA ROSATI - lo
porto il saluto del Comune di Carmignano, del Sindaco, della Giunta
e di tutta la cittadinanza che è onorata di ospitare questo
convegno. Devo dire di essere anche molto emozionata a vedere tanta
partecipazione ed ascoltare questi interventi come quello di prima
del prof. Collotti che toccando i tasti della memoria sì toccano
dei tasti delicati e importanti. E
credo che quando certi avvenimenti toccano
una parte dell'umanità le tracce è difficile che si
perdano. Non voglio prendere il tempo ad altri interventi che penso
siano veramente importanti e determinanti, e veramente vi ringrazio
per aver scelto il Comune di Carmignano insieme a Prato per questo
convegno e buon proseguimento dei lavori, e grazie di nuovo.
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