Maria Panizza racconta il dramma della famiglia di un giovanissimo deportato

"Quel viaggio a piedi verso Bergamo, con la valigia di pane"

Nel marzo scorso, a Milano, nel corso di una manifestazione a ricordo dei deportati della Caproni in seguito agli scioperi del marzo '44, Maria Panizza ha raccontato i giorni di ansia della sua famiglia dopo che suo fratello Giandomenico era stato preso e portato via da casa. La retata degli scioperanti, si sa, rispondeva alla campagna "notte e nebbia". Presi nella notte gli ostaggi dovevano essere fatti scomparire nella nebbia del sistema carcerario, senza che aifamiliari fosse fornita alcuna informazione sulla loro sorte. Quello di Maria Panizza è un punto di vista insolito nel dramma della deportazione. Riportiamo qui ampi stralci del suo intervento.

Io e mia madre ci mettemmo a cercare mio fratello. Ricordo che girammo tutta Milano, da San Fedele a San Vittore, spingendoci fino al comando tedesco di piazzale Brescia. Nessuno ci sapeva o voleva dire nulla sul suo destino. Poi finalmente, non ricordo esattamente come, venimmo a sapere che gli arrestati erano stati portati a Bergamo, alla Todt. Allora io e mia madre ci mettemmo in viaggio, e dopo tanto cercare trovammo la caserma. Insistemmo a lungo, e finalmente ci autorizzarono ad avere un brevissimo colloquio. Trovammo mio fratello concitato e affamato. Ricordo che ci pregò di portare tutto il pane vecchio che avevamo, e di cercarne dell'altro presso i vicini e i conoscenti, perché tutti erano affamati, visto che non avevano avuto praticamente nulla da mangiare. Ci disse che lo avrebbero portato in Germania, e che durante il viaggio non gli avrebbero dato niente. Ci chiese inoltre - ricordo questo particolare - quell'ovetto dì legno che avevamo a casa per rammendare le calze (dentro c'era il ditale, il filo per i rammendi, e deglì aghi). Mentre eravamo li a parlare con mio fratello si avvicinarono furtivamente altri arrestati. Con gesti rapidi, per non farsi scorgere dalle guardie, mi misero in tasca dei minuscoli fogliettini, ripiegati più volte. Quando uscimmo di là, li guardai e vidì che si trattava di brevissimi messaggi, con il nome e l'ìndirizzo delle famiglie alle quali dovevano essere recapitati. Rientrate a Milano, il giorno seguente cominciai la faticosa ricerca dei destinatari. Per me era molto complicato; non ero abituata a girare da sola per Milano, in quartieri lontani dal mio. E poi diverse volte arrivata sul posto trovavo le porte chiuse, perché tutti erano fuori per il lavoro. Non potevo certo fidarmi ad affidare quei bigliettinì a dei vicini. E così in qualcuna di quelle case dovetti tornare più volte, verso sera, prima del coprifuoco. In qualche caso ho trovato qualche iniziale diffidenza in quelle famiglie alle quali portavo un messaggio del loro congiunto arrestato. Erano momenti difficili, e diffidavamo di tutto e di tutti. Ma dopo un primo approccio esitante, vedendomi così giovane e con le trecce - che mi davano probabilmente un aspetto ancora più infantile dei miei quasì 15 anni - mi ringraziavano e piangevano. Raccolto tutto il pane che riuscimmo a trovare in una valigia, dopo qualche tempo mi rimisi in viaggio con mia madre per tornare a Bergamo. Ma tutto andò storto. La linea ferroviaria era stata bombardata e interrotta. Alla stazione ci dissero che non sarebbe partito nessun treno quel giorno verso Bergarno. Mia madre non si perse d'animo, e si incamminò a piedi. Giunte sulla statale, sempre con la nostra valigia di pane, cercammo qualche passaggio, ma per molto tempo non trovammo nessuno disposto a darcelo. Percorremmo in quel modo a piedi almeno dieci o dodici chilometri, ed eravamo stremate. Una volta un camion di soldati tedeschi, per farci "uno scherzo" puntò dritto su dì noi, costringendoci a buttarci in un fossato per non essere investite. Loro si divertivano a fare di queste cose. Lungo la strada trovammo un prete, anch'egli diretto a Bergamo. E infine un camionista ci prese a bordo e ci portò a destinazione. Arrivammo alla caserma con enorme ritardo, ovviamente. E quando fummo là ci dissero che gli arrestati erano stati trasferiti in stazione, per essere indirizzati verso la Germania. Se ci andate subito, dissero, forse fate in tempo prima che il treno parta. lo e mia madre corremmo allora verso la stazione, più in fretta che ci riusciva, sempre con la nostra valigia di pane. Ma quando finalmente arrivammo alla stazione un ferroviere ci disse che il treno era partito. Se foste arrivate un po' prima, disse, era proprio lì, su quel binario... Ricordo che allora ci sedemmo affrante sulla valigia che avevamo inutilmente portato fin lì, e che piangemmo disperate guardando i sassi della massicciata da dove mio fratello era partito per il suo oscuro destino. Guardando quei binari, mi accorsi che erano disseminati i bigliettini piegati mille volte, come quelli che mi avevano messo in tasca pochi giorni prima. Capii che erano dei messaggi dei deportati. Andai tra le rotaie, cercando una traccia di mio fratello. Raccolsi tanti biglietti, ma nessuno era suo. Il giorno dopo, tornate a Milano, ricominciai a girare per la città, per recapitare quei messaggi. Per mio fratello non potevo fare niente, e mi consolava di poter rendermi utile almeno per i suoi compagni di sventura. Per molte famiglie quei bigliettini che io recapitai furono l'ultima traccia del loro congiunto, ingoiato dalla macchina dello sterminio nazista. Quanto a noi, di mio fratello non abbiamo avuto più alcuna notizia fino alla sua liberazione.

Maria Panizza