Da alcun anni
all'ANED stiamo svolgendo una ricerca sulla deportazione femminile,
che si basa sulla raccolta delle testimonianze delle donne sopravvissute
ai lager nazisti. Abbiamo rilevato, infatti,
che nelle memorialistiche sulla deportazione, che pure annovera ricerche
pregevolissime, manca una specifica e puntuale ricerca sulla deportazione
femminile; alla quale si debbono riconoscere peculiarità particolarissime,
che riguardano non solo le ragioni delle scelte di lotta delle donne,
ma anche le ferite conseguenti alla loro separazione dalla fanúglia,
dai figli, al loro impatto con la prormscuità dei lager, e che
riguardano, infine ' l'aggressione alla riservatezza, alla sensibilitá
e alle necessità femminili, nel lavoro e nella vita del campo;
e le difficoltà incontrate dalle superstiti, al momento del rientro,
per il reinserimento nella famiglia e nella società.
Tutto questo, sino ad oggi, non è mai
stato oggetto di specifiche e puntuali ricerche. Una lacuna gravissima,
dunque.
A tutt'oggi siamo riusciti a raccogliere
260 testimonianze.
Ottenerle non è sempre stato facile.
Alcune compagne hanno risposto inviandoci una dettagliata testimonianza,
altre, facendo riferimento a qualcosa già scritto e pubblicato
anni fa, altre ancora hanno dichiarato di non volere più ricordare
questo periodo tanto tragicamente vissuto.
Le compagne con le quali siamo riuscite ad avere un'intervista: l'operaia
che ha partecipato agli scioperi del '44, la gappista, la partigiana,
la politica, l'ebrea, hanno tutte risposto con grande sincerità
e ricchezza di particolari alle nostre domande, consapevoli che queste
loro memone serviranno a far conoscere e comprendere meglio tutti gli
aspetti di un periodo tragico della nostra storia. Gli
storici sanno che le testimonianze "tardive" possono essere inquinate
da dimenticanze, omissioni e deformazioni, volute e inconsce. L'interpretazione,
sia pure soggettiva, svolge tuttavia una funzione fondamentale nel ricordare
gli avvenimenti, perché tutti cercano di dare un significato
a ogni situazione. Gli stessi storici ritengono però che la testimonianza
orae arricchisca sempre il patrimonio inestimabile della storia scritta.
Dalle testimonianze finora raccolte emerge un
importante aspetto della deportazione, soprattutto femminile, sovente
sottovalutato: quello che potrebbe essere definito "il dramma del ritorno".
L'incredulità e l'indifferenza di chi non ha conosciuto i Lager
si evidenziano in una totale mancanza di interesse per la tragica esperienza
della donna; ciò ha condotto molte deportate ad un graduale isolamento
e ad un dannoso ripiegamento su se stesse, mentre diverse patologie
s'impadroniscono e turbano ancora oggi il loro stato fisico e psichico.
Ad esempio, un'anziana deportata ebrea
è tormentata da musiche e suoni che aveva udito nel lager e che
improvvisamente le rimbombano nelle orecchie, come se ancora oggi si
trovasse rinchiusa ad Auschwitz. Oltre
a quella appena ricordata, sono moltissime le compagne che hanno parlato
di ricorrenti dolorosi ricordi che continuano a turbare, da quarantotto
anni, le loro menti, sino a degenerare in vere e proprie psicosi, trascinandole
in frequenti crisi depressive.
Di altre sappiamo che trascorrono periodi
più o meno lunghi in ospedali e luoghi di soggiomo climatico,
per forme di tubercolosi, gravi disturbi cardiaci, forme acute di insufficienze
respiratorie e affette da arterioselerosi precoce che degenera in stati
depressivi e di rifiuto della vita. E
per alcune donne non è mai cessata la sofferenza indicibile (che
infatti non riescono a dire se non con enorme pena) di essere state
violentate; quindi doppiamente annullate, nella dignità e nella
libertà. Dalle testimonianze raccolte
si manifesta una specificità della deportazione femminile che
coinvolse anche donne che in quel tempo erano prive di qualsiasi consapevolezza
politica. E il caso ad esempio di Loredana,
operaia alla Caproni, deportata perché, essendo a casa influenzata,
durante gli scioperi del '44, fu accusata di avervi partecipato; arrestata
nella propria abitazìone dai militi della MUTI, dopo un rapido
interrogatorio, le comunicano che sarà inviata al lavoro obbliaatorio
in Germania e finirà ad Auschwitz; oppure si può ricordare
il caso di Enrichetta, che fu deportata a Rawensbrück solo perché
si presenta ai nazisti per far liberare il padre, accusato di aiutare
i partigiani. E al suo ritorno dal campo fu rifiutata dalla famiglia.
In generale si può dire che coloro
che, nell'ambito della famiglia, hanno potuto parlare della loro esperienza,
sono quelle che meglio si sono inserite nella vita sociale.
Resta difficile dire in quale misura l'esperienza
del lager abbia influito sulle deportate e sul loro rapporto con la
società. La raccolta di notizie di tutto quel vissuto, che è
stato il lager, deve essere seguita dalla conoscenza del l'atteggiamento
che ogni donna deportata ha avuto, in seguito, nell'inserimento nella
vita comune e nell'affrontare lo svolgersi delle vicende quotidiane.
Molte donne parteciparono alla Resistenza
assicurando il collegamento fra i centri abitati e le formazioni partigiane,
portando armi e viveri, curando feriti, aiutando gli ebrei a nascondersi.
La partigiana Sandra venne arrestata
il 12 settembre 1944 in piazza Argentina
a Milano perché portava ordini, armi, e teneva i collegamenti
fra i gruppi gappisti e il loro comando. Dopo lunghi interrogatori,
durante i quali veniva ripetutamente picchiata, dalla casa del Fascio
di Monza fu mandata al campo di Bolzano. Di questo periodo ricorda il
duro lavoro e una fame spaventosa. Bice
viene arrestata nel giugno 1944 poiché la sua casa era diventata
un ritrovo dove, con le sorelle partigiane, si organizzavano riunioni
clandestine con giovani antifascisti di vari orientamenti politici;
compresi due sacerdoti. Dal carcere di Mantova fu trasferita alla Fortezza
di Verona per essere fucilata, ma poi fu deportata ad Auschwitz.
Nel 1943 iniziarono le deportazioni di intere
farniglie di ebrei: i vecchi, i bambini e gli infermi venivano, all'arrivo
al campo, subito inviati alle camere a gas. Nella memoria di Loredana
sono ancora vive le scene di disperazione all'arrivo dei convogli a
Birkenau, quando le famiglie ebree venivano divise, le mogli dai mariti,
i figli dai genitori anziani, e i bimbi venivano mandati alle camere
a oas con le loro madri. Clara Pirani
Cardosi, ebrea italiana coniugata in
matrimonio misto, nel maggio del 1944 fu arrestata nella sua
abitazione dalla Questura italiana, trasferita a San Vittore, poi al
campo di Fossoli e da qui, nell'agosto del '44, con l'ultimo convoglio
di 300 ebrei misti, giunse ad Auschwitz.
La stragrande maggioranza delle donne deportate, ebree e non ebree,
fossero esse state partecipi della lotta politica o no, è accomunata
dall'aver provato traurni laceranti per
gli orrori che conobbero fin dall'arrivo nei campi, tanto che ancora
oggi, in molte, rimane l'incapacità di darsi ragione di ciò
che pure hanno vissuto. Ciò che ha accomunato tutte le donne
che abbiamo intervistato, fossero esse deportate politiche, ebree o
zingare, era il sentimento di solidarietà verso le loro compagne
di sventura, tra le quali non esisteva discriminazione per differenze
di relìgione, tradizioni, lingue, costumi, educazione. Questa
stessa so- lidarietà ha permesso
a molte di loro di fare ritorno nelle proprie case.
Tutte vissero tragicamente la perdita
dell'identità individuale; traumatico fu denudarsi tra le brutalità
degli aguzzini, vedersi un numero tatuato sul braccio, vedersi rasate
a zero. Non erano più donne, non erano più individui.
Nei campi si visse tragicamente anche
l'esperienza della maternità: è il caso delle donne che
si videro separate dai loro figli, come fu per tutte le donne ebree.
E' il caso anche di quella donna che perdette marito e due figli durante
la lotta partigiana e infine, deportata anch'essa, dovette lasciare
l'unico figlio che le era rimasto. Ed è anche il caso di quella
donna che partorii ad Auschwitz e riuscì a nascondere la sua
bambina grazie alla solidarietà delle compagne; e quante invece
si videro strappare i loro piccoli appena nati.
Anche la condizione delle figlie fu brutalizzata nei lager. La diciassettenne
ebrea Agata lasciò sua madre all'ingresso di Auschwitz e quando
chiese di lei, la Kapò le indicò con disprezzo il fumo
di un ca"no urlandole: "Ecco, tua madre è là". E rilevante
constatare come in tutte le testimonianze non ci sia assolutamente odio,
ma solo volontà e speranza che certe esperienze non debbano più
ripetersi. Tutte desiderano la Pace, anche se tutte, e sottolineo tutte,
si pongono e ci pongono una sofferta domanda: è questo il mondo,
è questa la società che speravano di costruire, coloro
che sono sopravvissute ai Lager?
Miuccia Gigante
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