L'Amministrazione Provinciale di Firenze, insieme
alla locale sezione A.N.E.D., ha voluto per la seconda volta organizzare
un pellegrinaggio ai campi di Dachau e di Mauthausen, ai suoi sottocampi
di Ebensee e di Gusen e al Castello di Harteim, in occasione del 37°
anniversario della Liberazione. Come l'anno, prima, il pellegrinaggio
era destinato essenzialmente ad un gruppo di studenti di scuole secondarie
superiori, ai loro insegnanti e capi d'istituto; vi era inoltre una
rappresentanza dell'Amministrazione Provinciale, dell'A.N.E.D., del
Comune di Firenze, mentre il sottoscritto era stato invitato in qualità
di "storico accompagnatore".
E' stata indubbiamente un'esperienza interessante dal punto di vista
organizzativo, ed estremamente toccante sul piano umano. Mi è
stata data l'occasione di fare una specie di prolusione al viaggio,
nella sede dell'Amministrazione Provinciale, due settimane prima che
il pellegrinaggio iniziasse in maniera che ragazzi e insegnanti si potessero
fare una prima idea di che cosa era stata la deportazione nazista. Il
6 maggio, durante il viaggio di andata, fui chiamato, dopo che ebbero
parlato i rappresentanti dell'ANED e della Provincia, a fornire ulteriori
delucidazioni e a rispondere ad eventuali domande. Mi fu chiesto di
fare un breve discorso la mattina del 7 maggio, davanti al Monumento
Internazionale ai Caduti di Dachau, sia alla nostra delegazione che
a quella di Sesto S. Giovanni, e di dire alcune parole davanti al Monumento
Italiano a Mauthausen il 9 maggio, in occasione della grande manifestazione
internazionale. Un altro intenso scambio di punti di vista vi fu sul
pullman al ritorno, il 10 maggio.
Va subito detto che era la prima volta che mi accadeva di essere in
qualche modo protagonista in occasione di una visita ai campi di concentramento.
L'anno prima, nel dicerribre 1981, facendo parte della delegazione ANED
al IX Simposio Medico Internazionale della FIR, a Berlino (DDR), ebbi
modo di visitare il KZ di Sachsenhausen. Fu una visita ufficiale, venne
deposta una corona ai piedi del monumento ai caduti; si visitò poi il
campo, si vide il film e ci venne mostrato il museo della lotta antifascista
nei diversi Paesi d'Europa. Come tutte le cose organizzate, anche se
si acquisiscono notizie inedite, è all'insegna della fretta,
dello stare dentro certi limiti di tempo.
La visita individuale, a titolo personale, rappresenta una sorta di
colloquio interiore fra colui che si reca al KZ e ciò che egli vede
o, sa di quel campo, di quel block, dell'epoca in cui quel KZ fu allestito,
evacuato, liberato. Si guarda, si sosta, si parla con l'interprete o
con chi ci accompagna, si cercano dei raffronti fra ciò che si è
letto in precedenza e ciò che rimane, ci si pongono tanti interrogativi
che restano senza risposta.
Partecipare ad un pellegrinaggio è un'esperienza profondamente
diversa, e non solo perchè si pone a mezza via fra la visita
individuale ai campi e quella collettiva. Il gruppo che vi partecipava
era omogeneo ed eterogeneo insieme: i superstiti e i loro familiari,
i parenti dei caduti; coloro che, pur essendo stati deportati, già
avevano partecipato ad iniziative del genere;
il gruppo appartenente al mondo, della scuola studenti o ìnsegnanti
che fossero. Fra queste tre fasce di partecipanti a vario titolo, due
"esterni": il sottoscritto e un giovane consigliere provinciale in rappresentanza
della Giunta.
Una iniziativa del genere rappresenta, in finca di massima, un atto
di pietas verso gli scomparsi, di omaggio sia ai caduti che ai superstiti,
in quanto questi ultimi sono l'anello di congiunzione fra il passato
e il presente depositari di diritto della conoscenza di ciò che è
stato fatto dai nazisti contro l'uomo, in maniera che essa possa assere
trasmessa alle generazioni successive che non sanno, che non immaginano,
a cui la nostra società ben poco insegna di quello che è
accaduto fra il 1933 e il 1945. Ma - questa è la domanda che
mi pongo, e a cui non so trovare risposta - basta mettere insieme per
qualche giorno su un pullman alcuni superstiti e una ventina di ragazzi
fra i 15 e i 17 anni perchè questo passaggio di consegne avvenga?
Mi rendo conto delle obiezioni: non è una gita turistica, c'è
un minimo di selezione in fase organizzativa, c'è l'esperto al
seguito che può dare tutte le spiegazioni necessarie se quelle dei supestiti
non sono sufficienti, si visitano i musei dei campi, si incontrano altre
delegazioni, vi è la cerimonia della posa delle corone davanti
ai monumenti, vi è la grande manifestazione internazionale a
Mauthausen...
Pur riconoscendo la giustezza di tali obiezioni - che rappresentano
per così dire un continuo rinforzo di quanto è stato esplicitato
all'inizio dell'esperienza - proprio in quanto psicologo ho qualche
dubbio che il messaggio che si vuole trasmettere raggiunga i ragazzi,
principali destinatari di tali iniziative, forse perchè il salto
generazionale è troppo forte. Ho l'impressione che andrebbero
preparati durante tutto l'anno scolastico, attraverso ricerche storiche
opportunamente predisposte.
Infatti, nei cinque giorni del pellegrinaggio in questione, il corpo
insegnante ha fatto un sincero sforzo per adeguarsi al clima, alle situazioni,
alle aspettative, alle emozioni. I ragazzi sono rimasti un po' in disparte,
educati ma anonimi, forse un po' in soggezione (come si sarebbe detto
una volta) di fronte a questi adulti così seriosi, così
presi, così distanti, che non sembravano mai riuscire a dimenticare
quello che, durante le visite ai campi, avevano visto, ricordato, udito,
immaginato.
Forse il momento più intenso sul piano emotivo si è avuto
quando è stato fatto il consuntivo dell'esperienza nelle ultime
ore del viaggio di ritorno. Molti dei partecipanti adulti hanno cercato
di dire che cosa il pellegrinag,gio aveva significato per loro: per
quelli che lo facevano per la prima volta si trattava di mondi insospettati
che si rappresentava la conferma che il ricordo sarebbe stato mantenuto,
che la sofferenza di quasi 40 anni prima non era stata vana.
Volendo trarre delle conclusioni, direi che queste manifestazioni hanno
successo nella misura in cui sono calibrate sul risultato che si vuole
ottenere. Se lo scopo è di creare un ponte ideale fra il passato
e il presente, esso viene raggiunto più agevolmente quando la
differenza di età fra superstiti e partecipanti non è
eccessiva. La sensibilità individuale, il desiderio di capire,
l'esperienza di vita, l'impegno politico sono motivazioni sufficienti
per cominciare a comprendere quella che è stata l'esperienza
del KZ. Se invece si vuole raggiungere i giovanissimi, forse sarebbe
più opportuno cominciare - come altrove si è fatto - con
il sensibilizzare gli insegnanti, per la semplice ragione che valori,
ideali, significati e modelli non sono gli stessi per quindicenni e
sessantenni. Detto in altre parole, l'esperienza della deportazione
è come un sacro retaggio, che va trasmesso a chi è in
grado di valutarlo come tale. Disperderlo e frammentarlo come fosse
cosa di nessun conto non so quanto possa servire sia agli uni che agli
altri.
ANDREA DEVOTO
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