N. 1619/96 R.N.R.
N. 0409/97
RGU.D.
TRIBUNALE
MILITARE DI TORINO
REPUBBLICA
ITALIANA
lN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale
Militare, composto dai Signori:
1. Dott. Stanislao SAELI Presidente
2. Dott. Alessandro BENIGNI Giudice
3. Cap. A. M. Maurizio NANNELLI Giudice militare
con l'intervento
del P.M. in persona del dott. Pier Paolo RIVELLO
ha pronunciato in pubblica udienza la seguente
SENTENZA
nel procedimento
penale a carico di: SAEVECKE Theo, nato il 22/03/1911 ad Amburgo (Germania)
e residente a Buchholzstr 4 - 49214 Bad Rothenfelde (Germania);
IMPUTATO
del reato
di:
"VIOLENZA CON OMICIDIO IN DANNO DI CITTADINI ITALIANI" (artt.
13 e 185 co. 1 e 2 c.p.m.g., in relazione agli artt. 575 e 577, nn. 3
e 4, e 61 n. 4 c.p.) per avere cagionato, quale Capitano delle Forze armate
tedesche, nemiche dello Stato Italiano, la morte di:
1. Andrea
ESPOSITO,
2. Domenico FIORANI,
3. Umberto FOGAGNOLO,
4. Giulio CASIRAGHI,
5. Salvatore PRINCIPATO,
6. Eraldo SONCINI,
7. Renzo DEL RICCIO,
8. Libero TEMOLO,
9. Vitale VERTEMATI,
10. Vittorio GASPARINI,
11. Andrea RAGNI,
12. Giovanni GALIMBERTI,
13. Egidio MOSTRODOMENICO,
14. Antonio BRAVIN,
15. Giovanni COLLETTI,
Tutti detenuti
nel reparto carcerario di S. Vittore, inserendo i loro nominativi nella
lista dei soggetti da fucilare, disponendone il prelevamento dal predetto
reparto ed ordinandone poi la fucilazione, eseguita ad opera di un reparto
misto della G.N.R. e della "Muti" alle ore 6:10 del 10 agosto
1944 in Piazzale Loreto, durante lo stato di guerra tra l'Italia e la
Germania. La premeditata esecuzione di tali soggetti, che non prendevano
parte alle operazioni belliche, si caratterizzava per la crudeltà
del suo svolgimento, successivamente al quale veniva ordinato che i corpi
dei giustiziati rimanessero esposti nella Piazza per l'intera giornata.
La fucilazione rappresentava la rappresaglia conseguente all'esplosione,
dovuta ad un attacco dinamitardo, di un autocarro tedesco posteggiato
in Milano, Viale Abruzzi, esplosione avvenuta l'8 agosto 1944.
Poiché detta esplosione non cagionò il ferimento di alcun
militare tedesco, bensì la morte di numerosi passanti, civili italiani,
l'ordine di fucilazione non presentò l'adempimento delle direttive
emanate da Kesselring, ed in base alle quali per ogni tedesco ucciso dai
partigiani dovevano essere giustiziati dieci italiani.
In fatto ed in diritto
Il Giudice dell'udienza preliminare con proprio decreto dell'11.12.1997
rinviava Theo Saevecke, cittadino tedesco, già appartenente alle
SS naziste, al giudizio di questo tribunale per rispondere del reato ascrittogli
nella rubrica.
All'udienza del 19.06.1998, prima della apertura del dibattimento, si
provvedeva, con apposita ordinanza, in ordine alla costituzione delle
parti, in particolare si dichiarava la contumacia dell'imputato, assente
senza addurre un legittimo impedimento.
Dichiarato aperto il dibattimento, il PM svolgeva la sua relazione introduttiva,
richiedendo, a conclusione, l'acquisizione di documenti probatori e l'escussione
dei testi in lista. Seguivano le relazioni e le richieste delle parti
civili.
La Difesa, avuta la parola, formulava una questione preliminare incentrata
sull'applicabilità, per il caso de quo, dell'art. 248 CPMG. In
sostanza, sosteneva la Difesa, così come l'art. 248 CPMG impone,
per l'esercizio dell'azione penale a carico di Comandanti, per atti commessi
nell'esercizio del comando durante lo stato di guerra, la richiesta del
Ministro competente, allo stesso modo doveva richiedersi la medesima condizione
di procedibilità per la perseguibilità del reato ascritto
al suo assistito. Eccepiva, quindi, il Difensore il difetto di richiesta
di procedimento ed in subordine, nel caso in cui il Collegio avesse ritenuto
tale articolo applicabile solo a Comandanti italiani, eccepiva l'illegittimità
costituzionale del suddetto art. 248 CPMG nella parte in cui non equipara
i Comandanti stranieri a quelli italiani, come imposto dagli artt. 10
e 103 Cost.
La questione veniva ampiamente dibattuta dalle parti in contraddittorio
e, a seguito del quale, risolta dal Collegio, con apposita ordinanza per
le motivazioni in essa contenute. La Difesa, pertanto, procedeva nella
sua relazione introduttiva ed, infine, richiedeva l'ammissione di prove
documentali e l'escussione del teste indicato in lista. In ordine all'ammissione
delle prove il Collegio vi provvedeva con ordinanza motivata. All'esito
dell'istruzione dibattimentale, articolatasi in molte udienze, le parti
formulavano ed illustravano le loro conclusioni.
In particolare il PM ha concluso per l'affermazione di responsabilità
dell'imputato in ordine al reato come ascrittogli, esclusa qualsiasi attenuante,
e per la condanna all'ergastolo. Del medesimo tenore le conclusioni e
le richieste delle parti civili con ulteriore richiesta del risarcimento
danni.
La Difesa, invece, ha concluso, in via principale, per l'assoluzione del
suo assistito; in linea subordinata, previa concessione delle attenuanti
generiche prevalenti, il minimo della pena.
Il fatto per cui si procede riguarda l'uccisione di quindici italiani,
detenuti nel carcere di San Vittore in Milano, all'alba del 10 agosto
del 1944 nel Piazzale Loreto di quella Città.
Appare opportuno in primo luogo superare la problematica sulla giurisdizione
di questa Autorità Giudiziaria Militare a conoscere del reato de
quo.
In altri procedimenti analoghi, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito
in ordine all'appartenenza delle SS alle Forze Armate tedesche ed alla
conseguente assoggettabilità dei loro membri alla giurisdizione
penale militare. Saevecke, come risulta da una serie di documenti, ritualmente
ammessi, faceva parte delle SS con il grado di Capitano e, all'epoca dei
fatti contestatigli, ricopriva l'incarico di responsabile per la Lombardia
della SIPO-SD (Polizia e Servizio di sicurezza).
Né vale quanto asserito, in varie occasioni, dall'imputato, in
ordine alla sua appartenenza allo sceltissimo Corpo delle SS, e cioè
che egli fu quasi costretto ad indossare l'uniforme del suddetto Corpo
a seguito della riforma del 27.9.1939 che unificò, con la creazione
dell'Ufficio Centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), tutte le forze
di polizia (egli proveniva dalla Polizia di Stato). In primo luogo è
irrilevante la volontarietà o meno dell'appartenenza ad un Corpo
Militare per essere sottoposti alla giurisdizione militare; in secondo
luogo appare
inverosimile che si venisse cooptati all'interno di una struttura a cui
vennero affidati i compiti più delicati e, per questo, depositaria
e custode dei principi ispiratori del Nazismo.
E' indubbia altresì l'appartenenza del Saevecke, fin dall'età
giovanile, alle famigerate SA, come da lui stesso riferito nel suo "curriculum
vitae" del 1940, acquisito in atti che lo qualifica come profondo
assertore dell'ideologia nazista, qualità ritenuta essenziale per
l'ingresso nel corpo d'élite delle SS.
Dall'archivio dell'Ufficio dei procedimenti contro criminali di guerra
tedeschi è tratta una fotografia ricordo, che ritrae tutti gli
appartenenti alla SIPO-SD di Milano, in cui Saevecke figura nella uniforme
di SS dietro il suo superiore Col. Rauff. Secondo la ricostruzione dell'organigramma
delle forze tedesche, in Italia Saevecke rivestiva a Milano il medesimo
ruolo che ebbe Kappler a Roma.
Accertata l'appartenenza di Saevecke alle SS non appare, pertanto, opportuno
aggiungere nulla rispetto a quanto già detto dalla Suprema Corte
in ordine all'assoggettabilità alla giurisdizione militare degli
appartenenti a quel Corpo. All'esito del dibattimento appare indubbia
la responsabilità dell'imputato in ordine al reato ascrittogli.
Tale certezza deriva non solo dalle testimonianze rese in dibattimento,
ma, soprattutto dalla corposa quantità di documenti che l'Ufficio
del PM è riuscito a rintracciare nei vari archivi storici e giudiziari.
Trattasi di documenti, provenienti da fonti ufficiali o dallo stesso imputato,
ritualmente indicati ed ammessi come fonti di prova. Documentalmente provato
è rimasto, infatti, che l'iniziativa di intraprendere una qualsiasi
azione di rappresaglia spettasse ai comandi delle sezioni SIPO-SD e solo
nel caso in cui non era possibile contattare un comando "SD"
ed in caso di flagranza, tale iniziativa poteva essere presa dal Comando
Militare presente nel territorio. Ciò importa che le azioni che
portarono all'uccisione dei quindici detenuti non poterono che essere
decise dal Comando SIPO-SD (polizia di sicurezza) di Milano che aveva
al vertice il Capitano Saevecke.
Tale logica deduzione viene del resto suffragata (ed acquista, perciò,
valore di cosa certa) da un documento (proveniente dall'archivio federale
di Berlino ed acquisito agli atti) con cui, relazionando della situazione
nel Nord Italia nel periodo 1-15 agosto del 1944, il comando SD fa espresso
riferimento alla strage come compiuta in risposta ad una serie di attentati
posti in essere dai GAP in Lombardia.
Appare opportuno citare testualmente tale documento: "Nel periodo
compreso tra il 21 luglio ed il 10 agosto 1944 gruppi simili (GAP NdA)
hanno compiuto molti attentati dinamitardi e terroristici a Milano e dintorni.
In risposta, il 10.8.44, quindici detenuti della Polizia di Sicurezza
sono stati pubblicamente fucilati in una piazza di Milano. A fine intimidatorio,
i cadaveri sono stati lasciati sulla piazza per un giorno. Tramite avvisi
sui quotidiani e cartelloni per la strada è stato dichiarato che
dovrebbero essere giustiziate 25 persone in totale, ma
che non si procederà alla fucilazione delle altre 10 se non saranno
compiuti ulteriori atti di sabotaggio".
Le medesime informazioni erano contenute in un "comunicato"
del Comando SD di Milano (di cui, si ripete, era Comandante Saevecke)
affisso nelle vie di Milano, e pubblicato dagli organi di stampa, all'indomani
della strage.
Per meglio comprendere la rigida sfera di competenza tra la SIPO-SD e
il Comando Militare, nello stesso periodo, quest'ultimo, ragguagliando
l'Alto Comando tedesco sulla situazione del Comando di Milano, riferiva
i medesimi atti terroristici (con particolare riferimento all'attentato
di viale Abruzzi in cui si dice testualmente essere morti nove italiani
e molti altri feriti) e comunicava che "a causa dei fatti recenti
il Comando delle truppe di sicurezza ha anticipato il coprifuoco.....";
come si vede ben poca cosa rispetto alla ritorsione operata dalla SIPO-SD.
Dalle testimonianze raccolte dall'Ufficio dei procedimenti contro criminali
di guerra tedeschi nel 1946 (acquisibili al dibattimento in quanto atti
di altro procedimento ex art. 238 n.3 CPP) assumono particolare rilevanza
le dichiarazioni rese da Morgante Elena, segretaria di Saevecke all'epoca
dei fatti; di Krause Eugen, alle dirette dipendenze di Saevecke in qualità
di Tenente delle SS "SD"; di Schomm Franz, interprete del Colonnello
Goldbeck, governatore militare della Città di Milano.
Da tali dichiarazioni si evince con chiarezza l'organigramma delle autorità
tedesche in qualche modo interessate all'eccidio.
Responsabile SD delle SS per la Lombardia, Piemonte e Liguria era il Colonnello
Rauff, diretto superiore di Saevecke, con gli uffici aventi sede in Milano;
responsabile SD delle SS, (si ricordi che la sezione "SD" delle
SS era l'unica abilitata a disporre le rappresaglie) per la Lombardia
era il Cap. Saevecke; Capo delle SS per l'Italia Nord Ovest era il Gen.
Von Tensfeld con sede in Monza; a capo del comando militare tedesco in
Milano era il Col. Von Goldbeck. Orbene, sia per il ruolo ricoperto (responsabile
della sezione SD per Milano), che istituzionalmente riconduce al suo ufficio
la preparazione e l'esecuzione delle modalità dell'eccidio, sia
per tutte le testimonianze rese in dibattimento appare evidente che il
Saevecke diede materialmente l'ordine di eseguire la fucilazione dei quindici
detenuti.
Sempre dall'archivio dell'Ufficio dei procedimenti contro criminali di
guerra tedeschi illuminante appare la dichiarazione di Elena Morgante
segretaria di Saevecke: "... Io personalmente presentai questa lista
al capitano Saevecke e gli chiesi di ridurla ulteriormente a quindici
nominativi, cosa che egli fece". Anche fra i testi sentiti in dibattimento
vi è concordia nell'indicare l'imputato come una sorta di "deità"
(cfr. deposizione Montanelli) all'interno del carcere di San Vittore in
Milano da cui sono state tratte le vittime dell'eccidio. I testi Melli
e Montanelli hanno dichiarato che il potere di Saevecke si estendeva perfino
alla possibilità di far liberare personaggi di primo piano nella
lotta antifascista come Ferruccio Parri e lo stesso Montanelli. Non risulta
che per tali liberazioni (peraltro dallo stesso imputato rivendicate a
suo merito) egli abbia subìto conseguenze dai superiori. Ciò
implica logicamente l'assolutezza dei suoi poteri, libero da qualsivoglia
controllo sia pure del suo superiore diretto che aveva i suoi uffici nello
stesso stabile, all'Hôtel Regina in Milano.
Logicamente v'è da supporre che il Saevecke non potesse essere
l'unico ideatore dell'orrenda strage; la coesistenza, nello stesso albergo
Regina in Milano, degli uffici interregionali e provinciali delle sezioni
SIPO-SD (alle dipendenze rispettivamente di Rauff e di Saevecke), la sede,
nella vicina Monza, del Comando delle SS per l'Italia Nord, sono tutti
elementi che inducono a ritenere che la cd. rappresaglia ebbe più
di un padre.
Dalla dichiarazione all'Ufficio dei procedimenti contro i criminali di
guerra tedeschi della Morgante si evince che il Saevecke venne contattato
dal Col. von Goldbeck, all'indomani dell'attentato in viale Abruzzi, che
gli chiedeva sessanta ostaggi da fucilare per rappresaglia, ma egli riuscì
a convincerlo a ridurre prima a venti e poi a quindici il numero delle
vittime. A prescindere da possibili inesattezze circa l'interlocutore
(il Saevecke non poteva prendere ordini dal Comandante militare di Milano
Col. von Goldbeck) è plausibile che tutti i responsabili degli
uffici SIPO SD e delle SS venissero coinvolti in un'operazione di tale
portata. Così come è da ricercare nella volontà di
coinvolgere quanto più possibile gli italiani nell'attività
di repressione, che venne richiesto l'intervento della legione "Muti"
per eseguire materialmente l'eccidio.
Queste considerazioni, peraltro, giuridicamente non incidono sul giudizio
di responsabilità di cui oggi è processo; anche ammettendo
che il progetto criminale ebbe origine dai superiori, il Saevecke vi aderì
pienamente, come gli appartenenti alle SS erano abituati a fare, dando
precise disposizioni in ordine alle modalità di esecuzione ivi
compreso l'ordine di mantenere esposti i corpi delle vittime a monito
di tutti gli oppositori. Non avrebbe del resto potuto essere diversamente
in considerazione del fatto che la rappresaglia venne decisa a seguito
dell'attentato in viale Abruzzi a Milano e, quindi, competente era l'ufficio
SIPO-SD di Milano diretto dal Saevecke.
Pacifica è la giurisprudenza della Suprema Corte sul punto: "la
partecipazione morale nel reato si manifesti indifferentemente con qualsiasi
attività che....(omissis)....rappresenti un contributo causale
alla sua verificazione" (Cass. SS.UU. 28.11.81). Occorre a questo
punto valutare se, nell'azione posta in essere dall'imputato, possano
rinvenirsi profili di non punibilità.
In particolare appare necessario esaminare le questioni della rappresaglia
e della repressione collettiva.
In ordine alla prima questione, che potrebbe integrare quel giustificato
motivo discriminante la condotta illecita di cui all'art. l85 CPMG, occorre
subito sottolineare che, a causa dell'attentato in viale Abruzzi, cui
il comando tedesco collegò la rappresaglia, non venne registrata
nessuna vittima di nazionalità tedesca; qualche dubbio in proposito,
sollevato anche da qualche storico, appare fugato dal documento acquisito
in atti proveniente dal Comando della G.N.R. in cui si dava notizia dell'attentato
e si elencavano le vittime ed i feriti, tutti italiani. Tale circostanza,
ormai non revocabile in dubbio, escluderebbe qualsivoglia possibile legittimo
ricorso alla rappresaglia quale istituto di diritto internazionale bellico.
La migliore dottrina insegna, infatti, che l'istituto della rappresaglia
si fonda sulla possibilità di attribuire ad uno Stato, colpito
nei propri interessi, una capacità di autotutela preventiva e repressiva
nei confronti dello Stato aggressore. Proprio perché la rappresaglia
è una risposta ad un illecito, sono state individuate delle condizioni
per il suo legittimo esplicarsi:
1) occorre che vi sia stata una lesione di un diritto o di un interesse
dello Stato;
2) che l'atto di rappresaglia abbia i caratteri della proporzionalità
rispetto all'offesa arrecata;
3) che venga attuata senza mai violare i più elementari valori
umani.
Nel caso
di Piazzale Loreto nessuna delle condizioni richieste per un legittimo
esercizio della rappresaglia sembra sussistere. Nessun contrasto tra Stati
sovrani (i GAP non avevano alcun riconoscimento internazionale) da risolversi
con norme di diritto internazionale bellico; nessuna lesione a diritti
od interessi tedeschi, poiché tra le vittime registrate nell'attentato
di viale Abruzzi nessuna era di nazionalità tedesca (così
che non avrebbe potuto nemmeno invocarsi l'applicazione del bando Kesselring),
nessuna proporzione tra l'offesa arrecata allo Stato tedesco (un automezzo
distrutto ed il ferimento "leggero" dell'autista tedesco) e
l'uccisione di quindici italiani.
Del resto nessun tentativo risulta essere stato effettuato dalle forze
di sicurezza per rintracciare gli autori dell'attentato di Viale Abruzzi,
talché non è possibile invocare neanche la necessità
della rappresaglia.
E' noto che le forze tedesche, nel periodo d'interesse, si trovassero
in gravi difficoltà; non a caso è proprio in quel periodo
che si verificano le più feroci repressioni contro ogni opposizione
ad un regime che si rende conto ogni giorno di più della sua sconfitta.
Orbene in questo clima potrebbe sostenersi la "necessità bellica"
di ricorrere alla rappresaglia. Invero, secondo l'unanime dottrina, è
da ritenersi legittima la rappresaglia, presenti tutte le altre condizioni,
quando essa appaia necessitata dall'inutile effettuazione di tutte le
possibili investigazioni atte all'identificazione ed alla cattura degli
autori dell'atto illecito, ma poiché nessun tentativo venne fatto
per assicurare alla "giustizia" gli autori dell'attentato, anche
sotto il profilo della necessità bellica la rappresaglia fu illegittima.
Inapplicabile al caso concreto appare, infine, il ricorso alla categoria
della "repressione collettiva".
Tale istituto è disciplinato dall'art. 50 della Convenzione dell'Aja
del 1907 nell'ambito di una serie di prescrizioni tutte riconducibili
a sanzioni di tipo economico, del tutto diverse, quindi, da quella in
esame.
Appare superfluo sottolineare che l'attributo "collettive" allontana
irreversibilmente la possibilità di qualificare l'uccisione di
più persone come una repressione collettiva, non essendovi nulla
al mondo di più "singolare" della vita; in tal senso
tipica repressione collettiva è la requisizione di beni pubblici
quali edifici pubblici, biblioteche, musei ed altro. Del reato sussistono,
pertanto, tutti gli elementi materiali e morali e risulta commesso in
assenza di qualsivoglia causa di giustificazione.
La contestazione include anche le aggravanti della premeditazione e dell'aver
agito con crudeltà verso le persone.
La premeditazione presuppone necessariamente due elementi: il primo di
natura cronologica (deve sussistere un apprezzabile lasso di tempo tra
l'ideazione criminosa e la sua realizzazione); il secondo di natura psicologica,
ravvisato nella persistenza della risoluzione criminosa che perdura nell'agente
dalla ideazione alla commissione del reato. Secondo la giurisprudenza
della S.C., infatti, è indispensabile che ricorra uno spazio temporale
tra l'ideazione e l'esecuzione del proposito criminoso, durante il quale
esso si rafforza e si consolida, ma anche e soprattutto durante il quale
vengono altresì studiate le modalità e predisposti i mezzi
esecutivi del reato (Cass. sez. I, 1995, n. 201739).
Secondo la ricostruzione dei fatti, operata in dibattimento, risulta che
la decisione dell'eccidio venne presa, quale risposta del Comando tedesco,
immediatamente dopo la notizia dell'attentato di Viale Abruzzi dell'8.8.1944.
Quali le modalità, gli esecutori, il luogo, coloro che dovevano
essere uccisi furono decisioni prese tra i giorni 8 e 9 e furono decisioni
prese o avallate dal Saevecke. Illuminante a tal proposito la deposizione,
già citata, della Morgante: "Io personalmente presentati questa
lista al Cap. Saevecke. Chiedendogli di ridurla a quindici, cosa che egli
fece...". Il Sergente dell'SS Anton Heininger il 2.12.46 agli inquirenti
per i procedimenti contro i crimini di guerra tedeschi ebbe a dichiarare:
"verso agosto del '44 fui chiamato insieme con Jarsko, dal Cap. Saevecke;
ci furono date istruzioni di recarci al mattino successivo al carcere
di San Vittore e di seguire un convoglio di soldati italiani, che sarebbe
partito con autocarri dal carcere predetto; avevamo l'obbligo di riferire
al capitano se la fucilazione di alcuni detenuti civili italiani aveva
avuto luogo o meno.... (omissis) dopo che la fucilazione ebbe luogo ritornai
al mio servizio normale e Jarsko si occupò di riferire, secondo
le istruzioni ricevute, al capitano Saevecke".
Da tali elementi il Collegio trae il convincimento della sussistenza della
premeditazione: aver preparato affinché altri eseguissero l'eccidio
(legione Muti); aver ordinato ai suoi dipendenti di verificare che le
modalità, da lui stabilite, venissero rispettate; aver emanato
un comunicato (acquisito in copia agli atti) in cui si dava atto di quanto
compiuto e si promettevano, nel caso di prosecuzione degli attentati,
altre esecuzioni pubbliche, tutte circostanze sussistenti e richieste
dalla citata giurisprudenza per ritenere sussistente l'aggravante contestata.
L'ulteriore aggravante contestata, dell'aver agito con crudeltà
verso le persone ex art. 61 n. 4 CP, necessita per la sua configurabilità,
che la condotta criminosa, nelle sue modalità specifiche, manifesti
un "quid pluris" rispetto agli ordinari mezzi di esecuzione
del reato, in quanto la malvagità dell'agente e la sua insensibilità
a qualsivoglia richiamo umanitario fa sì che si fuoriesca dal normale
processo di causazione dell'evento (Cass. sez. I, 1993, n. 196417).
Il Saevecke ordinò che, a monito per la popolazione, i cadaveri
delle vittime rimanessero esposte nel piazzale per 24 ore (numerose le
foto dei giornali dell'epoca acquisite agli atti). Solo a seguito delle
insistenze del clero fu permesso ai familiari di dare cristiana sepoltura
ai caduti. Il cinismo di tali comportamenti ben integrano, a parere del
Collegio, quegli elementi necessari a configurare l'aggravante de quo.
Applicabili al reato in esame appaiono, inoltre, le cd. attenuanti generiche
ex art. 62 bis CP. Introdotte con il DDL 14.09.1944 n. 288, (nella vigenza
dello stato di guerra), ai sensi e per gli effetti dell'art. 23 CPMG esse
trovano legittima applicazione, per i reati previsti dal Codice Penale
Militare di Guerra, anche per i fatti commessi anteriormente all'entrata
in vigore del DDL 288/44.
Espressamente richieste dalla Difesa, le attenuanti di cui all'art. 62
bis CP appaiono concedibili.
E' noto che le predette attenuanti non possono costituire una benevola
concessione del giudice al di là di valutazioni comunque ancorabili
al fatto-reato da un lato e alla valutazione della personalità
del reo dall'altro. Pacifico è inoltre che la concessione delle
predette attenuanti non implichi da parte del giudice una valutazione
di non gravità del reato; la S.C. ammette, infatti, la concessione
delle attenuanti generiche anche a fatto-reato di eccezionale gravità
(cfr. Cass. sez. VI, 1991 n.189245). Ciò è possibile, ovviamente,
prendendo in esame non il fatto-reato bensì il reo, ed, in particolare,
la sua capacità a delinquere.
A favore del Saevecke militano comportamenti anteriori e successivi al
reato ascrittogli.
E' stato
accertato che egli permise la fuga dal carcere di diversi partigiani (fra
cui il futuro Presidente del Consiglio Ferruccio Parri), non fu estraneo
alla rocambolesca fuga di Indro Montanelli (cfr. verbale testimoniale)
ed, infine, non fu insensibile alle richieste di "grazie" particolari
da parte della Curia Milanese.
Per quanto già detto (riguardo alla sussistenza dell'elemento psicologico)
è verosimile che il Saevecke abbia disposto il massacro di Piazzale
Loreto non già per soddisfare la malvagità del suo animo
bensì perché chiamato ad assolvere un compito, obiettivamente
delittuoso, consequenziale alla funzione da lui svolta in seno alla sua
organizzazione; ciò attiene alla gravità dei motivi a delinquere,
elemento valutabile ai fini della concessione delle attenuanti de quo.
Per ciò che riguarda poi la condotta susseguente al reato è
da osservare che il Saevecke, contrariamente ad altri responsabili di
fatti analoghi, non si è mai nascosto né mai sottratto alle
numerose inchieste penali ed amministrative che nel corso degli anni gli
chiedevano conto del suo operato; risulta che egli abbia concluso la propria
carriera quale vice Capo della Polizia della Repubblica Federale Tedesca.
Per tutte le considerazioni enumerate appare il Saevecke meritevole delle
attenuanti generiche. Dette attenuanti vanno sicuramente comparate con
le sussistenti aggravanti. Il Collegio, infatti, ritiene di non dover
aderire alla tesi contraria autorevolmente sostenuta in caso analogo.
Il principio di ultrattività sancito dall'art. 23 CPMG secondo
cui "per i reati preveduti dalla legge penale militare di guerra,
commessi durante lo stato di guerra, si applicano sempre le sanzioni penali
stabilite dalla legge suindicata, sebbene il procedimento penale sia iniziato
dopo la cessazione dello stato di guerra, e ancorché la legge penale
militare di pace o la legge penale comune non preveda il fatto come reato
o contenga disposizioni più favorevoli per il reo", non può
estendersi a contenuti non strettamente previsti dalla norma.
Non è ammissibile, infatti, interpretazione estensiva di norme
eccezionali in contrasto addirittura con principi cardine dell'ordinamento
giuridico. L'art. 23 si riferisce esplicitamente e soltanto a "sanzioni
penali" o a "disposizioni più favorevoli per il reo";
non sembra che il criterio di comparazione tra circostanze di reato, di
cui all'art. 69 CP., appartenga all'uno o all'altra categoria. Non alla
categoria delle sanzioni penali perché intuitivamente esse si riferiscono
alle tassative conseguenze penali che il legislatore collega alla commissione
di un fatto-reato; non alla categoria delle disposizioni più favorevoli
al reo poiché la norma sulla comparazione di per sé è
neutra nel senso che solo in concreto e solo nel caso di prevalenza delle
circostanze attenuanti rispetto a quelle aggravanti può risultare
più favorevole al reo. Del resto pacificamente è stata ammessa,
anche per i reati previsti e puniti dal CPMG, l'applicabilità delle
attenuanti generiche, norma sicuramente più favorevole al reo,
entrata in vigore solo nel settembre 1944 e cioè dopo la commissione
di fatti-reato oggetto di giudizio.
Procedendo, pertanto, alla comparazione delle circostanze aggravanti ed
attenuanti, ritenute sussistenti nel presente procedimento, osserva il
Collegio che le prime prevalgono sulle seconde. La particolare gravità
delle sussistenti aggravanti, tanto che il legislatore ha previsto pene
diverse (e addirittura la pena detentiva perpetua), rispetto a circostanze
attenuanti previste come discrezionali e dunque con una valenza obiettivamente
minore di caratterizzazione del fatto criminoso, inducono a tale conclusione.
L'affermata subvalenza delle riconosciute circostanze attenuanti generiche
rispetto alle contestate e sussistenti aggravanti, comporta, in applicazione
dei principi di cui all'art. 157 CP, l'imprescrittibilità del reato
di cui alla rubrica.
Ciò si ricava dal tenore letterale della norma citata in relazione
a quella dell'art. 577, c. 1° n. 3 e 4 CP, che prevede l'applicazione
della pena dell'ergastolo. Che questa sia l'interpretazione corretta si
deduce dalla stessa relazione ministeriale sul progetto del Codice penale
che così recitava: "affinché l'istituto della prescrizione
risponda alle ragioni di opportunità politica su rilevate, è
necessario che si sia quasi perduta la memoria del fatto criminoso e che
l'allarme sociale, da esso suscitato, sia scomparso. Ora una così
radicale e profonda modificazione di cose non si verifica per i reati
atroci e gravissimi, che lasciano nella memoria degli uomini un'orma e
un ricordo tanto pauroso da non eliminare mai completamente l'allarme
sociale".
Ebbene pur essendo trascorsi ben 55 anni dall'orrenda strage per cui è
processo, il tribunale ha potuto verificare "de visu" la preveggenza
e la saggezza del legislatore del 1930. Tutti i testimoni che sono sfilati
innanzi al Collegio hanno dimostrato, con l'emozione nelle voci con le
lacrime e con ogni altro segno di partecipazione, di avere impresso indelebile
nella memoria quanto hanno visto e udito in relazione alla vicenda processuale.
La vivacità dei ricordi, ben più nitidi di quelli riguardanti
fatti recentissimi ma di poco o nullo allarme sociale, ha permesso al
Collegio di allontanare da sé il pericolo (gravissimo in un giudice
imparziale) di considerarsi "giudice della storia". La mole
di documenti probatori, la "freschezza" delle dichiarazioni
testimoniali, la passione profusa dalle parti processuali nel sostenere
il proprio ruolo hanno fatto dimenticare che si trattava di fatti accaduti
più di mezzo secolo fa.
Quanto alla pena, avuto riguardo ai criteri di cui all'art. 133 CP n.1,
2 e 3, il Collegio ritiene adeguata quella dell'ergastolo. Alla condanna
segue per legge l'obbligo del pagamento delle spese del giudizio. In ordine
alle richieste di risarcimento del danno presentate dalle parti civili,
il Collegio, ritenute congrue e conformi a legge le somme indicate dalle
parti civili quali spese processuali, condanna il Saevecke al loro risarcimento
in sede provvisoriamente esecutiva; per ciò che attiene alle ulteriori
somme richieste a titolo risarcimento danni, il Collegio sul presupposto
che appare indubbio che il reato accertato ha comportato, in rapporto
di diretta causalità, danni morali e materiali giuridicamente apprezzabili,
e nella considerazione del numero e della complessità delle situazioni,
alla luce dell'art. 539 CPP provvede alla generica condanna del Saevecke
al risarcimento, rimettendo le parti innanzi al competente giudice civile.
PQM
letti gli
artt. 533 e 535 CPP
DICHIARA
Saevecke Theo, contumace, responsabile del reato ascrittogli e concesse
le attenuanti generiche subvalenti rispetto alle contestate e sussistenti
aggravanti, lo
C
O N D A N N A
alla pena
dell'ergastolo; spese e conseguenze di legge. Condanna, inoltre, il medesimo
al pagamento delle spese processuali come richieste e al risarcimento
dei danni morali e patrimoniali alle parti civili, da liquidarsi in separata
sede. Dispone la provvisoria esecuzione della condanna al pagamento delle
spese processuali sostenute dalle parti civili.
Torino, nove
giugno millenovecentonovantanove
IL PRESIDENTE ESTENSORE
- dott. Stanislao SAELI -
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