DONNE E UOMINI NELLA SOCIETA’ CHE CAMBIA
20.10.09
Marina Piazza
Io
vorrei impostare il mio intervento su due cardini, sue due parole chiave: lavoro e cura. Perché ritengo che la
presenza forte delle donne nella nostra società è legata alla connessione
stretta di questi due termini.
Vediamo
il primo termine: come si presenta oggi il mercato del lavoro in Italia?
Le
conseguenze della flessibilità hanno portato a un lavoro meno stabile e a un
lavoro meno remunerato, per tutti, uomini e donne, un po’ di più per le donne.
Segni che connotano inizialmente anche carriere lavorative post-fordiste
destinate in seguito a svilupparsi, ma che perdurano soprattutto per i giovani
e le giovani dei ceti medi e popolari.
E’
in crisi il modello di lavoro fordista, ritagliato sul maschio adulto e che
comportava l’esclusione delle donne.
La
crisi di questo modello (aggravata dalla crisi dell’economia reale) comporta
anche la crisi della famiglia male breadwinner, che è stata il perno del
modello fordista.
Oggi
il mercato del lavoro vede: più tipi di lavori, lavori intermittenti, più
soggetti, più variazioni temporali, più variazione spaziali.
Fermiamoci a “ più soggetti” e in
particolare a “uomini e donne.
Sono due i fattori sociali su cui è necessario mettere l’accento in apertura di
discorso: da un lato la quantità e qualità della scolarizzazione femminile,
dall’altro la partecipazione effettiva al mercato del lavoro.
Il processo di scolarizzazione (iniziato negli anni ‘70 e completato nel 2000) vede
oggi il 19% di donne laureate contro poco più del 12% dei maschi e oltre il 49%
delle diplomate contro neppure il 43% dei diplomati.
Anche
il processo di inclusione delle donne
nel mercato del lavoro, pur in modo meno lineare, è molto avanzato. Il dato
delle Forze di lavoro dell’ultimo trimestre 2008 rileva il 47% di occupate, con
un lieve aumento rispetto all’ultimo dato disponibile (46.6%), appare come un
dato basso rispetto alla media europea, ma sconta un fortissimo gap tra
centro/nord e sud (meno quasi 30 punti
percentuali), uno scarto anch’esso di forti dimensioni della partecipazione
delle donne oltre i 45 anni, un tasso di part-time molto inferiore rispetto
alla media europea, una presenza consistente di lavoro nero e grigio.
E’
anche importante puntualizzare che il
tasso di occupazione delle donne laureate in tutta Italia, compreso il sud, è
altissimo e in media con le donne danesi (80%), e ancora mettere l’accento sulla forte presenza
nel mercato del lavoro – in particolare nel centro-nord - delle donne nella fascia
d’età 25-44 anni (oltre il 70%, dato superiore alla media europea)
Sono
dunque presenti e attive donne giovani, con una forte scolarizzazione, con la
radicata consapevolezza di volersi giocare la loro vita su entrambi i piani:
della realizzazione di se nel campo professionale e nel campo della vita
affettiva familiare.
Dunque
spinta delle donne a entrare nel m.d.l. e contemporaneamente riconoscimento
delle teorie economiche che è essenziale per un Paese avere un alto livello di
occupazione femminile (womenomics).
Questi
positivi elementi di inclusione – seppure imperfetta – si arrestano di fronte a
un altro dato che apre uno scenario diverso e molto meno positivo. Lo scenario
del riconoscimento delle competenze che le donne portano nelle organizzazioni e
nelle professioni. E’ uno scenario simile in tutti i Paesi europei, con una particolare
accentuazione in Italia.
Una
recente ricerca dello studio McKinsey&Company sottolinea il fatto che
benché le donne siano il 55% dei laureati in Europa, sono ancora il 21% in meno
degli uomini nel mercato del lavoro e rappresentano l’11% dei membri dei CDA
delle compagnie quotate, con un gap notevole tra
E
sottolinea soprattutto il fatto che in assenza di misure idonee, la crescita
delle donne laureate non cambierà significativamente la loro posizione nella
leadership delle compagnie e il tetto di vetro resterà saldamente al suo posto.
Le proiezioni al 2035 indicano ad esempio un aumento per
Dunque
il processo di inclusione è molto lento. E questa lentezza è dovuta a una
semplice ragione: che nonostante i cambiamenti, il principio di fondo del
mercato del lavoro è attestato su un modello male oriented.
Nel
modello male oriented, la disponibilità di tempo e di spazio
implica anche una carriera lineare, mentre appunto le donne incorrono più degli
uomini nell’opting out, nel
“chiamarsi fuori” in determinate fasi del loro corso di vita.
Come reagisce questo modello alla
presenza delle donne?
in
modi diversi:
O imponendo la mascolinizzazione delle
donne e la loro omologazione al
modello, pagata con costi per la vita personale molto più alti che per gli
uomini.
Da
una ricerca dell’Università di Harvard, emerge che il 54% delle middle e senior
managers intervistate non avevano figli rispetto al 29% degli uomini, mentre il
33% erano single rispetto all 18% degli uomini. Ancora: il 49% delle donne
meglio pagate erano senza figli rispetto al 19% degli uomini. Ancora un’ultima
pennellata: nel governo di Zapatero, formato da 8 donne e 8 uomini, cinque ministre non avevano figli e 3 un solo
figlio, mentre i ministri uomini avevano complessivamente 24 figli.
O bypassando il problema, annegandolo
nell’irrilevanza: non c’è un pensiero
condiviso sull’importanza della presenza delle donne, è ritenuta tale solo
dalle donne stesse (e nemmeno da tutte). Sul tema delle P.O. pesa una
rappresentazione vecchia e svilente, il sospetto di una cultura di parte, di
una cultura della rivendicazione senza merito, che cerca il vantaggio
particolare , che cerca di avere
posti, denaro, ecc e non di offrire
una visione meno limitata, meno arrogante della realtà.
O riconoscendo l’importanza delle
differenze e sottolineandone la valorizzazione, basata sul riconoscimento che vi sono uomini e donne
all’interno delle organizzazioni e che non si tratta solo di fare azioni di
tutela – che vanno naturalmente mantenute,ma di riconoscimento delle
differenze, di diversity
management. Non quindi il superamento di una differenza “in
meno”, ma la presa d’atto del valore distintivo che il genere porta alla
cultura e all’azione. La questione comincia a essere posta non più come una
questione di parte o a parte, come una questione di donne, ma come una sorta di
imperativo a sviluppare le risorse umane all’insegna della qualità e
dell’efficienza. E si comincia a riconoscere che un’organizzazione – come
d’altra parte anche un’intera società - che non riconosce, non premia, non sviluppa
una parte consistente – in alcuni casi la maggior parte – del potenziale
professionale esistente è un’organizzazione destinata al fallimento.
Questo
a livello teorico è molto chiaro , ma molto spesso - troppo spesso - si ferma alla enunciazione
teorica.
Perché
adottare questo punto di vista significherebbe andare ad analizzare – e
possibilmente trasformare – i cardini dell’organizzazione: il sistema
premiante, le carriere, la formazione, il sistema di conciliazione (tempi,
orari, flessibilità favorevole, servizi, benefit, ecc.), non facendone campi
separati, ma sottolineando invece che sono strettamente interconnessi.
Ancora
il rapporto McKinsey sottolinea l’intreccio tra i fattori oggettivi (doppia
presenza delle donne e modello organizzativo maschile) e i fattori soggettivi
(insufficiente autopromozione di se, difficoltà a identificarsi con il successo
per mancanza di modelli femminili forti, scarse ambizioni).
Emergono
dunque due grandi aree che devono entrare in un circolo virtuoso: da una parte il
riconoscimento e la valorizzazione delle competenze ( a cominciare
dall'autoriconoscimento), dall’altra il sistema complessivo di conciliazione.
E qui allora vorrei introdurre il
secondo termine: cura.
Che
cosa significa cura, prendersi cura di?
Possiamo
considerare la cura dal punto di vista dell’insieme delle azioni che lo
compongono (azioni simboliche e azioni materiali) e quindi far emergere il
valore dell’immensa mole di lavoro di riproduzione non pagato che pervade e
connette la vita di donne e uomini, bambini e vecchi, famiglie e generazioni.
E
qui il problema è la mancanza di simbolico. E’ il simbolico che dà dignità al
lavoro di cura, che dà misura, quella misura che manca quando il fare resta
muto e non riconosciuto ..l’immaginario occidentale identifica la donna con il
materno, connota il materno come oblativo e quindi confina il materno nel
privato...l’inclusione delle donne nel privato comporta la loro esclusione
dalla cittadinanza e dunque l’esclusione della cura da tutti quei discorsi che
assumono la cittadinanza come oggetto tematico, e quindi l’esclusione dai
discorsi politici.
Possiamo
considerare la cura dal punto di vista della temporalità (i tempi sono quattro:
i tempi della produzione, i tempi della riproduzione di se, il tempo libero e
il tempo della cura).
Possiamo
considerare la cura attraverso l’analisi
degli spazi. Il dentro e il fuori, il privato e il pubblico. Oggi i confini
sono diventati porosi, confusi.
Ma
io vorrei considerare il concetto di
cura come relazione, come necessità di reciprocità tra dentro e fuori.
E’
questo il percorso seguito da M. Nussbaum, la quale, facendo propria la tesi
secondo cui la pratica di cura è un’attività umana irrinunciabile, propone che
su di essa venga rifondata ogni teoria etica della cittadinanza.
Allora
tema del discorso è come l’essenzialità della cura, il suo valore
irrinunciabile si possa trasformare in politiche, cioè possa entrare nella
polis.
Se
il lavoro di cura diventa sempre più indispensabile nelle nostre società per
come oggi sono strutturate e definite, la politica sociale e il sistema di
welfare dovrebbero appunto esercitarsi alla cura, partendo dai suoi presupposti
fondamentali: il riconoscimento della dipendenza e il riconoscimento della
risposta alla dipendenza.
Ma
è appunto questo riconoscimento che è difficile, in primo luogo perché si
oppone ai modelli sociali correnti (di forza, autonomia, potere), modelli
fasulli perché poi i maggiori destinatari del lavoro di cura sono i maschi
adulti, in secondo luogo perché accetta la dipendenza degli altri senza
trasformarla in potere.
Ma,
come osserva Chiara Saraceno, se non si riconoscono i bisogni di dipendenza
come parte integrante dell’esistenza umana e quindi di ogni riflessione su
uguaglianza, libertà, universalismo, essi posso venire successivamente
recuperati solo in modo subordinato, paternalistico, come qualcosa di cui i
“pienamente uguali” e liberi possono farsi carico per generosità o per
valutazioni utilitaristiche, ma sempre come eccezioni” (Tra uguaglianza e
differenza, Il Mulino 4/2008)
Solo
nel momento in cui alla cura sarà riconosciuto il suo ruolo nella costituzione
della civiltà, questioni come la legittimità della distribuzione attuale dei
riconoscimenti sociali diventeranno prioritarie nell’agenda sociale e politica...
E
quindi non è un problema individuale delle famiglie – o dei soggetti ad esso
tradizionalmente delegati, le donne – ma un problema al centro non solo delle
politiche sociali, ma persino della vita stessa delle organizzazioni. In questo
senso la dimensione della cura dovrebbe costituire il fondamento del concetto
stesso di cittadinanza , mentre ancora stenta ad essere posta, come dovrebbe al
centro di ogni discorso politico, sociale ed educativo. Quindi non sto parlando
della condizione delle donne, sto parlando della condizione di tutti. Un paese,
dove nel tentativo impossibile di far quadrare il bilancio, si taglia sulla
sanità, sui servizi, sulla scuola, sulla formazione, sulla ricerca è un paese
dove le donne non esistono politicamente. Si potrebbe persino dire che una
società che non vede il lavoro di cura è una società totalitaria. E comunque è
una società che lega il tema della cittadinanza al lavoro, non alla cura.
Quel “lavoro di cura”, ancora così pesantemente sulle
spalle delle donne – per il 77%, secondo gli ultimi dati Istat, non resta
confinato nel recinto domestico, entra anche nelle organizzazioni. E diventa, a
mio parere, il fattore che incide più pesantemente. Da più di dieci anni,
l’Unione Europea insiste sulla necessità di misure di conciliazione vita lavoro
(work-life balance) sia nel campo delle strategie individuali e familiari
(condivisione del lavoro di cura), sia nel campo dei luoghi di lavoro
(flessibilità favorevole, benefit aggiuntivi), sia nel campo del territorio e
del pubblico (piani degli orari, servizi ecc.). Ma non sembrano evidenziarsi
molti cambiamenti.
Perché, per aprire il campo davvero a politiche di
conciliazione credo che vada rovesciata
l’ottica del rapporto donne –lavoro – vita personale.
Dicevo
prima che soprattutto nelle donne più giovani che è ormai interiorizzata l’ovvietà di essere dalle due parti: nella realizzazione di se nel
lavoro per il mercato e nell’altro campo (famiglia, affetti ecc.).
Sono
dunque cambiate le donne, ma è cambiato
anche il lavoro: lavoro della conoscenza, ad alta tecnologia. E quindi sono
cambiati anche i modi di farlo.
Ed
è cambiato anche il lavoro di cura, familiare. E’ anch’esso diventato un lavoro
della conoscenza, di mediazione, di apprendimento continuo.
Si
può allora continuare ad accettare che questo doppio sapere che hanno le donne
continui a essere rappresentato come sintomo di minorità o di svantaggio, come
una questione femminile da inserire nel pacchetto “soggetti deboli”?
Oppure
è ormai tempo di rivendicare la modernità, l’attualità di questo progetto biografico che, come
scrive Lorenza Zanuso,”sani la cesura insensata tra la voglia e l’ambizione di
conoscere e trasformare il mondo e il piacere e la responsabilità di
prendersene cura”?
Io
credo che le donne non vogliono affatto rinunciare al piacere di essere nel
mondo del lavoro, ma nello stesso tempo rivendicano non tanto il diritto, ma
soprattutto il piacere e la responsabilità che hanno nei confronti di chi hanno
messo al mondo. Dunque è il rovesciamento del modello che è in discussione, non
il fatto di volersi inserire nelle pieghe “compassionevoli” che a volte – peraltro raramente - la società e le aziende
propongono loro.
Non
si presentano come vittime imploranti, ma come soggetti che mettono in
discussione un modello lavorativo fordista, ritagliato e pensato per il maschio
adulto.
Poiché
è da più di trent’anni che le donne “ci sono”, la loro abilità a destreggiarsi
tra i due campi viene facilmente riconosciuta, anche dagli uomini. Acrobate,
funambole, equilibriste, giocoliere: sono termini ricorrenti. Con due stili
interpretativi: di benevola compassione (ma
come fanno? prima o poi la corda si spezzerà.. e in effetti a volte succede
e allora entra in campo l’analisi delle specifiche depressioni femminili)
oppure con cinica ammirazione (hanno una
marcia in più, potrebbe servire anche nell’organizzazione del lavoro:così
attente all’altro (leggi cliente),
così capaci di mediazione, ecc..).
Io
credo che bisogna rovesciare l’ottica. Non guardare loro, le donne, nè con compassione nè con cinica ammirazione:
partendo da loro guardare il mondo del lavoro, con le sue leggi scritte e non
scritte e denunciar nell’inutile rigidità e guardare l’intera società, che
mentre si proclama familista, mentre lamenta il futuro incerto che si prospetta
per un paese sempre più abitato da vecchi e spopolato di bambini, si permette
di dimenticarsi di politiche lavorative, sociali e familiari degne di questo
nome.
Non
sto certo proponendo un percorso facile, nè sicuramente immediato. Credo però
sia necessario.
Possiamo
chiamarle politiche di conciliazione. Qualcuno, seguendo il lessico di Marta
Nussbaun, le chiama politiche di capacitazione.
Politiche
di capacitazione collettiva rivolte ai contesti in cui gli individui operano.
Si tratta di riconoscere che nel post fordismo tale status spetta a uomini e
donne che alternano attività di formazione, lavoro, ricerca di lavoro, attività
di cura. In modi reversibili, perché oggi sono scavalcati i rituali naturali di
studio, lavoro, famiglia, pensione. E’ in atto una desacralizzazione dei
rituali naturali.
E
di questo è necessario accorgersene perché i cambiamenti non solo sono
possibili, sono inevitabili.