Risate, schiamazzi e rimproveri: così inizia
la giornata a cui mi ero avviato con sottile timore. Più di trecento
studenti tra i 16 e i 18 anni d'età accompagnati dai loro insegnanti
trattengono a stento la loro allegria: partono, vanno ad Auschwitz.
Siamo su un aereo gigantesco, un Jumbo, e per molti di quei ragazzi
forse è questo il primo viaggio in un paese straniero, forse è il primo
aereo: come si fa a stare fermi, come si aggiusta il sedile, cosa ci
daranno da mangiare, e chi sono quelli con quei cosi buffi in testa.
Infatti alcuni fra i ragazzi della scuola ebraica portano in testa la
kippà, ma ci sono anche altri studenti ebrei di oltre 20 scuole della
città, improvvisati mediatori culturali fra i loro compagni di classe
e i ragazzi con la kippà.
Mi guardo intorno: tutto l'aereo è invaso dagli studenti e i loro professori
sembrano sommersi in quel mare in continuo movimento. Più avanti, nei
posti migliori, gli artefici dell'impresa, ovvero i collaboratori del
Comune e della compagnia aerea, ed uno stuolo di ospiti di prestigio:
giornalisti, rappresentanti della Comunità ebraica, dell'ambasciata
israeliana, il sindaco, qualche assessore, qualche consigliere comunale
ed infine un piccolo gruppo di persone anziane.
Ed è verso di loro che il mio sguardo si rivolge protettivo, perché
un po' come nei luoghi importanti o sacri, quegli schiamazzi irriverenti
potrebbero risultare offensivi proprio per loro, i "sopravvissuti"
o i "testimoni" come più garbatamente qualcuno preferisce definirli.
Ma è testimone chi osserva dall'esterno, una figura terza rispetto ai
protagonisti, ed invece loro, donne e uomini ormai anziani, 55 anni
fa furono protagonisti, protagonisti passivi: vittime.
Non è ancora iniziato il viaggio e già mi sono imbattuto nella prima
schermaglia solo apparentemente lessicale: ecco, il mio timore prende
forma. E'una situazione che conosco bene eppure è sempre imprevedibile,
il problema è sempre lo stesso: come dire, come fare, come spiegare...
a chi non sa - come gli studenti - o a chi pensa di saperne già abbastanza,
come gli adulti, giornalisti e politici.
Mi preoccupo degli altri per non pensare a me stesso: è la prima volta
che vado in un campo di sterminio, e non ne ho alcuna voglia e non ne
avevo alcun bisogno: credo di conoscere bene quella realtà tragica ma
non ho mai desiderato misurarne il dolore in modo così diretto. "Proteggiti"
è stato il consiglio di un'amica, ma non so come si faccia e quindi
provo ad ignorare il problema passando
in rassegna tutte le difficoltà che riesco ad immaginare: non so se
riuscirò a svolgere il mio solito compito di mediatore politico e culturale
senza essere travolto dalle emozioni. Penso, parlo, spiego, l'aereo
decolla: finisce il tempo degli interrogativi.
Gli insegnanti iniziano a raccontare, al loro fianco i sopravvissuti
e alcuni volontari delle associazioni dei partigiani e degli ex deportati.
Raccontano mentre sotto di noi scorre quella porzione d'Europa che tanto
ha dato alla cultura occidentale, la stessa porzione di terra che ha
partorito la tragedia. Trieste e poi Graz, Vienna, Bratislava, per raggiungere
il punto che sembra essere l'apice nord-orientale del cuore d'Europa,
alla stessa latitudine di Praga e sulla stessa longitudine di Budapest:
Auschwitz è lì, vicino al confine meridionale della Polonia, a pochi
chilometri da Cracovia. "La mia famiglia fu presa il 16 ottore 1943,
quando tre compagnie di diversi reggimenti della polizia nazista comandate
dal tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, iniziarono in piena
notte a prelevare gli ebrei che vivevano in diversi quartieri romani
e infine, all'alba iniziarono la razzia nell'antico quartiere ebraico
di Roma... Ci arrestarono con oltre 1.250 persone... In più di mille
ci mandarono ad Auschwitz..."Non è facile da raccontare, non è facile
da sentire.
Giornalisti e studenti - qualcuno prende appunti - ascoltano tra un
panino e una risatina soffocata. I racconti si moltiplicano."Lo sterminio
perpetrato dai nazisti nei confronti del popolo ebraico viene spesso
impropriamente definito Olocausto, cioè sacrificio. Noi preferiamo invece
il termine ebraico Shoà che vuol dire sciagura, disgrazia... fino all'annientamento".
I ragazzi erano in qualche modo già preparati: molti di loro hano chiesto
di partecipare al viaggio, altri sono stati scelti per i loro meriti
scolastici, ma le sollecitazioni sono tante e generano in loro confusione
e incredulità: parole nuove, parole esagerate risultano inicomprensibili
o incommensurabili. I ragazzi seguono e capiscono ma non basta: è una
storia assurda, è una esagerazione, non è credibile, e soprattutto non
si capisce il perché.
Sarà questa la domanda che si ripeteranno a lungo e che riemerge la
mattina dopo sui pullman che da Cracovia ci portano ad Auschwitz. I
ragazzi hanno sonno anche perché la serata per le vie della città e
la notte in albergo hanno rigenerato il clima goliardico della partenza:
qualcuno è riuscito anche ad andare in discoteca riscuotendo un certo
successo fra i giovani del luogo e l'indomani si parla di conquiste.
Ma le guide polacche sul pullman sono inflessibili e iniziano a spiegare
molte cose, a volte anche con una certa sapienza: ma io temo il momento
in cui rimergerà la domanda "perché" e temo per le risposte.
"Per Adolf Hitler - spiega la guida in uno stentato italiano - gli ebrei
rappresentavano la somma del male: secondo lui gli ebrei avevano inventato
dottrine politiche e sistemi sociali per controllare il mondo: erano
ebrei gli ideatori e i leader dei movimenti operai e socialisti in Europa:
erano ebrei i grandi capitalisti e gli industriali del mondo: erano
ebrei i banchieri più importanti della terra: erano ebrei gli intellettuali
del pensiero liberale europeo ed anglosassone; e così via il loro scopo
soggiogare il popolo tedesco, ed il mondo". Ascolto. "Effettivarnente
gli ebrei erano molto ricchi, e c'era un po' d'invidia nei loro confronti;
HitIer esagerava ma loro erano molto importanti nell'economia tedesca
e in quella polacca".
Sobbalzo sorpreso, i ragazzi annuiscono, finalmente qualche risposta
credibile! Ma sarà il loro professore a correggere subito il tiro.
"Il pregiudizio antiebraico in Europa ha una storia lunga ed antica,
così come sono antiche la storia e la presenza del popolo ebraico in
Europa. In ogni epoca il pregiudizio antiebraico ha avuto forme e contenuti
diversi, ma ciò che rimane costante nel tempo è il fatto che gli ebrei
sono sempre stati considerati "diversi"ed è la paura dell'altro,
la paura di ciò che non si conosce, di ciò che mette in discussione
il nostro mondo, le nostre abitudini, le nostre idee, che genera sospetti
o giudizi avventati, infondati, cioè pregiudizi. Il pregiudizio semplifica
la vita, classifica cose e persone, stabilisce facilmente ciò che è
bene e ciò che è male". Lo guardo ammirato soprattutto per la sua combattività,
e lui ricambia compiaciuto con uno sguardo d'intesa, ma i ragazzi non
sembrano convinti.
Finalmente arriviamo, confusi fra comitive di studenti polacchi e tedeschi
e turisti giapponesi e americani. Nella baraonda generale riusciamo
a metterci in marcia: alla testa gli stendardi, il sindaco, le autorità
e l'inevitabile strascico di assistenti giornalisti e telecamere: piccola
pausa di fronte al cancello dalla famigerata insegna "Arbeit Macht Frei",
ed ecco che entriamo insieme, sembra un corteo ma piano piano diventa
qualcosa di diverso. Ci guardiamo nei volti e ci sentiamo a disagio,
avvertiamo una sorta di malessere ma intorno a noi tutto sembra in ordine,
anche perché quel campo era originariamente una bella caserma polacca
di fine secolo, e non sembrano niente male nemmeno le piccole costruzioni
in mattoni che vediamo: i cosiddetti block. Ed è in un piccolo cortile
che ci riuniamo tutti, fra il block 11, la casermetta della Gestapo
e il block 10, il laboratorio degli esperimenti: di fronte a noi "il
muro della morte" dove giorno e notte i soldati fucilavano i prigionieri.
La cerimonia è breve, qualche discorso e la testimonianza di una donna
sopravvissuta anche al laboratorio degli esperimenti. Avvertiamo la
paura di un tempo, la follia, ed improvviso si leva il più triste dei
canti: è il vicepresidente della Comunità ebraica che, a modo suo, recita
un antico salmo che un ignoto compositore ha musicato proprio qui ad
Auschwitz, ed è poi divenuto il canto di coloro che si avviavano alle
camere a gas. La tensione sale.
ll canto apre cuori e menti, e in pochi trattengono l'emozione: i ragazzi
sono commossi ed io mi allontano. Non sono più custode di nessuno, cerco
riparo. Lo conosco quel canto, lo intono sottovoce e fa male: sembra
di stare al posto di qualcun altro, di scimmiottare gesti altrui. E'
fisicamente insopportabile la sensazione di esistere, di essere vivo
lì, in quel luogo dove altri, a milioni, hanno trovato la morte. Penso
ai sopravvissuti, alla fatica che fanno ogni giorno, alla sofferenza
che hanno patito là dentro e a quella che hanno dovuto affrontare dopo,
al peso di esistere al posto di un altro. Ora, per visitare il campo,
si formano tanti piccoli gruppi, li seguo con lo sguardo e mi aggrego
all'ultimo mentre s'infila in un padiglione: la visita continua di block
in block e c'è sempre qualcuno che spiega, finché arriviamo in uno stanzone
dove è accumulata una montagna di valigie.
Avevamo visto prima cumuli di scarpe, di vestiti, di pettini, di occhiali...
esposti dietro a dei vetri come in un museo. Ma le valigie hanno sopra
scritti dei nomi: Kafka, Meyer, Bauer, Oppenheimer.. quel nomi rompono
la barriera del vetro, "tu sei il tuo nome", penso e provo a pronunciarli:
Kafka, Meyer, Bauer... Smetto subito, mi volto e mi rendo conto di essere
rimasto indietro, cerco l'uscita, trovo delle scale, scendo, esco dall'edificio
e ora sì sono completamente solo.
Riprendo a camminare, costeggio il filo spinato cercando zone colpite
dal tiepido sole polacco per scaldarmi e per sentirmi vivo, ma hanno
il sopravvento le ombre, quelle degli alberi che nascondono il campo
alla vista degli automobilisti, quelle delle torrette di guardia, e
quelle immaginarie dei prigionieri che inizio ad avvertire intorno a
me, magri, assenti, muti.
E muto allungo il passo, evito la collinetta con il camino: non voglio
vedere i forni crematori. lo che sono venuto qui per aiutare gli altri,
per spiegare, ora mi affretto oltre il cancello d'ingresso a cercare
un po' di vita. La trovo fuori, gli studenti discutono, con un panino
in mano. Qualcuno ha gli occhi gonfi, altri ancora si difendono a colpi
di scetticismo: "Sembra un museo e non è poi così spettrale".
Ma durerà poco perché ora andiamo a Birkenau, cioè ad Auschwitz 2, a
pochissimi chilometri di distanza, ci arriviamo in pochi minuti costeggiando
i binari della ferrovia. I ragazzi scendono dai pullman e il loro sguardo
inciampa nei binari che attraversano il cancello d'ingresso di Birkenau.
Il campo non ha muri intorno, solo reti metalliche e filo spinato. Un
solo piccolo edificio all'ingresso, al suo centro il cancello attraversato
dai binari: sopra c'è una torretta da dove il comando del campo poteva
osservare tutto.
Saliamo a turno, in piccoli gruppi, e la visione è sconvolgente. Il
campo è sconfinato, diviso da altri recinti metallici e fili elettrificati,
ma ciò che lo rende ancora più spettrale è il fatto che delle centinaia
di baracche costruite in legno restano solo le fondamenta ed i camini
in muratura, come se delle baracche rimanessero solo gli scheletri:
sembra un bosco dopo un incendio.
Ed è così che si presenta Birkenau anche percorrendolo a piedi: spettrale
e trasparente, lo sguardo può attraversare libero tutti gli spazi, intuendone
gli ingombri originari, una distesa sconfinata di recinti, torrette
di guardia, camminatoi, e poi camini, camini a centinaia.
Costeggiamo i binari ed il lunghissimo piazzale dove deportati di tutta
l'Europa venivano fatti scendere dai treni a migliaia, e poi subito
selezionati: per il viale di sinistra verso le baracche ed il lavoro,
per il viale a destra verso le camere a gas.
Camminiamo ormai dispersi in cento gruppi, i ragazzi sembrano infine
aver capito, li ascolto e trepido: "Prima di essere annientati fisicamente
sono stati ridotti a numeri, senza alcuna considerazione... usati come
animali da soma o da lavoro... come cavie per esperiementi scientifici,
in schiavi per i servizi ai soldati tedeschi... privati della loro dignità
non erano più esseri umani". Una nuova emozione. Ero venuto per aiutare,
per sostenere ed ora mi sento accudito dalle parole degli studenti che,
pur se disordinate, sono ormai chiare. "Ciò che è accaduto nei campi
di sterminio nazisti non è stato solo l'assassinio di milioni di esseri
umani, ad Auschwitz è stata annientata l'umanità".
Passa il tempo e ragazzi e vecchietti parlano fitto fitto: io m'intrufolo
di tanto in tanto, ascolto e dico qualcosa, compio la mia missione e
alla fine mi concedo una passeggiata solitaria lungo il piazzale della
selezione, seguo ii binario che diventa improvvisamente tronco: lì finiva
il mondo, penso. Di fronte al mausoleo del campo, sventolano retoriche
le bandiere di tutta Europa a testimoniare l'unità dei popoli contro
la barbarie: i gonfaloni del Comune e delle associazioni attendono,
qualcuno dovrà dire qualcosa, ma non c'è il sindaco: ci guardiamo in
faccia e si decide che a rappresentare un po' tutti, sarò io, dovrò
parlare senza microfono, e concludere la visita.
Prendo coraggio e abbozzo un discorso. La mattina dopo, prima di tomare
al nostro aereo, la bellissima Cracovia ci distrae con i suoi monumenti
ed un sole mediterraneo, i ragazzi comprano souvenir per i genitori,
e qualcuno tenta l'ultimo arrembaggio alla compagna di viaggio.
E'solo in aereo, una volta decollati, che il ricordo anima un po' tutti.
Si formano gruppi e gruppetti, i giornalisti spiano con discrezione
quei ragazzi che sono ormai diventati dei compagni d'avventura.
Ora, ascolto solo me stesso. Mi domando se ciò che ho fatto è stato
sufficiente, tiro un bilancio della mia prima volta in un campo di sterminio,
di questa impresa di cui pensavo di non aver alcun bisogno: sembrava
un fatto pubblico ed è diventato qualcosa di molto privato, intimo,
personale.
Ma gli studenti, nati nel 1980, e forse anche i turisti giapponesi,
mi hanno confermato che Auschwitz non è un fatto intimo, e che per intuire
la Shoà non occorre avere coinvolgimenti personali.
Penso da solo, a quelle valigie dietro al vetro, a chi le ha usate trascinandole
fino a quel binario morto che, ora, sembra rivolgersi a ritroso, dal
campo per andare dappertutto, verso Mosca, Parigi, Salonicco, Amsterdam,
Budapest, Vienna, Roma....
C'è un binario tronco nel cuore d'Europa, un punto d'arrivo o, forse,
una nuova partenza.
Victor Magiar
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