"Memoria e storia: il caso della deportazione" di Anna Rossi-Doria

La memoria dei deportati ha invocato la storia

Ma questa non ha risposto

 

Un importante saggio esamina le ragioni di una rimozione: perché le vittime dei Lager non appartengono al patrimonio collettivo del paese. Manca ancora una storia della guerra mondiale

Non esiste ancora un'opera storica complessiva sulla deportazione italiana, e le ricerche di carattere locale, spesso legate al lavoro degli Istituti di storia della Resistenza, stanno aumentando solo negli ultimi anni. Tra i maggiori storici italiani dell'età contemporanea, pochissimi si sono interessati ai temi della deportazione e dell'internamento: a parte il caso esemplare di Vittorio Emanuele Giuntella, si possono fare solo i nomi di Giorgio Rochat, che abbiamo già citato, e di Enzo Collotti. Come si spiega questa sostanziale latitanza della storiografia? Prima di cercare di rispondere a questa domanda, va premesso che non vale, se non come alibi l'argomento talora addotto della inadeguatezza della disciplina storica in quanto tale, e prima di tutto del suo linguaggio, di fronte alla indicibilità della esperienze dei Lager. E vero invece che l'indicibilità può essere "un pretesto per sottrarsi allo sforzo di immaginare una realtà che si preferisce rimuovere ... Che un'esperienza resti indicibile, é dunque anche il frutto di una scelta politica e ideologica da parte di individui e istituzioni". Le cause del silenzio degli storici su questi temi vanno dunque cercate in altre direzioni. La prima é la ben nota caratteristica della storiografia contemporaneistica italiana, di essere stata a lungo quasi esclusivamente politica e pesantemente segnata dalle divisioni politiche: ora, i deportati avevano per così dire anzitutto il torto di non rientrare in nessuno schieramento politico, se non per esserne qualche volta strumentalizzati. Inoltre, proprio a causa di quella caratteristica, si ripercosse fin dall'inizio sulla storiografia il clima politico del dopoguerra, quando l'indifferenza nei riguardi degli ex-deportati si confuse con la generale diffidenza suscitata nel mondo politico dai reduci, sia per il ricordo preoccupato del loro movimento nel primo dopoguerra, che era sfociato nel fascismo, sia per il loro grande numero e la loro grande eterogeneità sociale: tutte ragioni per cui il problema dei reduci fu "accantonato con un tacito accordo e la concessione di modeste forme di assistenza". Una seconda causa del fatto che gli storici contemporaneisti italiani hanno ignorato il tema della deportazione é la loro generale difficoltà, non nelle dichiarazioni di intenti e nei dibattiti metodologici ma nel concreto della ricerca, a stabilire un vero rapporto con le scienze sociali, mentre invece "lo studio e l'insegnamento dell' 'evento Auschwitz' ... infrangono letteralmente tutte le barriere fra le varie discipline nel campo delle scienze umane, costringendole ad estesi scambi metodologici se non addirittura a ridefinizioni dei loro oggetti rispettivi". Infine, ed è forse la causa più importante, la storiografia italiana, tranne quella militare e diplomatica, e malgrado eccezioni quali i volumi ad essa dedicati nella biografia di Mussolini di Renzo De Felice, non ha quasi studiato la guerra, concentrandosi invece sulla Resistenza e ignorando la deportazione, che veniva non solo distinta dalla Resistenza, ma spesso, più o meno implicitamente, quasi contrapposta ad essa. E' questo un nodo cruciale su cui occorre fermarsi. Sebbene i primi storici della Resistenza avessero scritto qualche pagina sulla deportazione, questo non ha cambiato il ruolo marginale ad essa assegnato nella vicenda di quegli anni: già nel 1954 Alessandro Natta, nel suo libro non pubblicato, osservava ad esempio che, sebbene quegli storici avessero dedicato "un qualche cenno, una qualche attenzione" agli internati militari, la storia di questi ultimi "resta ancora da scrivere". La ragione essenziale della marginalità della storia dei deportati sta in realtà nel fatto che essi non avevano combattuto. Andrea Devoto ha sottolineato spesso che, poiché non poteva esercitare alcuna forma di lotta armata o di violenza, "al deportato dal 1945 ad oggi ... é stata confermata in continuazione la mentalità del perdente, del vinto". E Bruno Maida ha analizzato in questa stessa chiave l'immagine dei deportati che, formatasi negli anni del dopoguerra, ebbe profonde conseguenze anche in seguito: 'Una guerra é tale se é combattuta con le armi, se c'è un vincitore e un vinto, se c'è una sfida, una battaglia. Nel Lager, nella maggior parte dei casi, non c'è stato nulla di tutto questo o meglio non ha avuto le forme dell'immaginario popolare, cosi come si é venuto formando attraverso l'ideologia politica. La guerra, poi, é caos, ma, alla fine, riporta le cose e le persone ad un ordine ... Il Lager, invece, é solo distruzione .... sembra una sofferenza senza senso, che nasce e finisce tra i reticolati. ... L'Italia del dopoguerra vuole eroi e certezze, non certo uomini che lottano per la sopravvivenza e dubbi.. Essere rinchiusi - l'hanno sempre insegnato - é segno e simbolo di colpa". L'idea che solo chi aveva combattuto con le armi aveva sconfitto il nazifascismo e riconquistato la democrazia ha avuto un peso determinante. Non a caso una storica come Anna Bravo, le cui ricerche si sono concentrate prima sui deportati e poi sulle donne durante la guerra, insiste da alcuni anni sulla categoria elaborata da Jacques Sémelin di "Resistenza civile" o "senz' armi". Il mito della violenza rigeneratrice e liberatrice, che in vari paesi é servito a fondare una visione della Resistenza atta a rimuovere il passato ("un modo di raccontare la storia per chiederle perdono", secondo lo stesso Sémelin), e in Italia in particolare a cancellare le responsabilità per il passato fascista, ha avuto come conseguenza il fatto che la figura del partigiano non solo ha prevalso su quella del deportato, ma la ha addirittura cancellata. A tale cancellazione gli ex-deportati politici sostanzialmente reagirono rivendicando il loro essere parte integrante della Resistenza appunto in quanto suoi combattenti, e gli ex-internati militari valorizzando il rifiuto dell'arruolamento nelle file della RSI come primo capitolo della Resistenza (furono anzi proprio loro i primi ad usare l'espressione "Resistenza senz'armi", che oggi si é tanto diffusa, già nel 1984). Ma a lungo nessuna di queste due strategie riuscì ad avere successo. Un ex-deportato piemontese dichiarava a metà degli anni '80: 'Credo che non si sia mai accettata la deportazione come momento di resistenza, tanto é vero che le hanno sempre tenute distinte, e nelle mostre e nelle pubblicazioni e nelle manifestazioni il deportato viene come codicillo: il povero cristo! Ci hanno incollato addosso questa immagine pietistica, che é quella che fin dall'inizio mi ha dato enormemente fastidio. 'Poveri voi', e chiudevano il discorso sul 'poveri voi"'. Un esempio significativo delle difficoltà opposte da parte degli storici della Resistenza ad integrare in essa la storia della deportazione é rappresentato dai periodici interventi ai convegni dell'Aned di Guido Quazza, uno dei pochissimi, tuttavia, che ebbe il merito di non sottrarsi al confronto con questo tema. Nel 1983 egli, malgrado la dichiarazione iniziale, negava la possibilità di quella integrazione: "La deportazione appartiene di pieno diritto alla resistenza ..., ma sta di fatto che la storia dei due termini nel corso della vita della nostra repubblica é spesso stata una storia di dissociazione e non di convergenza ... L'origine di questa dissociazione ... [sta in] un movimento partigiano ... che é nella lotta politica subito incandescente una forza ... Diversa la sorte dei deportati ... i quali tornavano in condizioni tali da non poter entrare immediatamente nel vivo della lotta politica. ... Il dovere di non dimenticare ... deve congiungersi fermamente alla capacità di guardare l'intera realtà ... Ciò comportava già allora, e comporta ancor oggi che l'elemento 'forza' costituito dalla resistenza armata costituisse, e rimanga, uno strumento più idoneo di quello della tragedia della deportazione a pesare nell'apprezzamento di chi guarda alla presenza degli uomini in quanto centri attivi nella determinazione della dimensione politica". In un convegno di tre anni dopo, Quazza ancora giustificava il privilegiamento della Resistenza rispetto alla deportazione: "L'intellettuale impegnato non poteva, pena una forte diminuzione del nell'efficacia del suo monito e del suo esempio, fermarsi sulla deprecazione dell'orrore quale scaturiva dalla vicenda dei Lager ... Negli anni della speranza, cultura e politica dovevano, quasi per spinta interna necessaria e superiora alle scelte della volontà, gettarsi su una vicenda, come la guerra partigiana, nella quale aveva campeggiato il prender parte con la ribellione... lo scegliere consapevolmente ... La deportazione, invece, appariva storia del negativo, del negativo assoluto". Questa posizione cambia, non con una nuova analisi, bensì con una sola frase, nei convegni del 1988 e del 1993, nei quali rispettivamente Quazza afferma che "partigiani, internati, deportati sono membri diversi, ma ugualmente essenziali della complessiva resistenza al fascismo d'ogni luogo" e che la "storia della nostra Repubblica ... ha la sua indiscutibile data di nascita nella Resistenza, sia la Resistenza partigiana ... , sia in quell'altra Resistenza, diversa ma estremamente più dolorosa ed estremamente più ricca di caduti, che é la Resistenza nei Lager nazisti". Oggi peraltro anche l'inserimento a pieno titolo del fenomeno della deportazione in quello della Resistenza, ormai acquisito, appare un obiettivo limitato e troppo segnato dal predominio di quest'ultima negli studi storici italiani sulla seconda guerra mondiale. A ben vedere, del resto, quell'obiettivo, tanto perseguito dalle associazioni degli ex-deportati, era contraddittorio: se da un lato, infatti, era giusto e legittimo rivendicare la deportazione come un aspetto della Resistenza, dall'altro lato ridurla a questo significava tacerne o addirittura tradirne la specificità. In effetti, non nella storia della Resistenza italiana, ma nella storia generale dell'Europa nel XX secolo i futuri studi storici dovranno inserire la storia della deportazione. E questo per motivi sostanziali: di merito, perché nella storia dei totalitarismi del nostro secolo, come é ormai ben chiaro, i campi di concentramento e di sterminio non sono un episodio, ma la chiave di volta, di metodo, perché la storia contemporanea italiana ha bisogno di innovazioni metodologiche che la facciano uscire dalle angustie politiche precedenti. Per fare tutto questo, la storia della deportazione non potrà rimanere separata dalla memoria, ma dovrà trovare i modi e le forme per integrarsi con essa e per garantirne la trasmissione anche a partire dal momento, ormai vicino, in cui saranno scomparsi tutti i testimoni diretti. E questo sia per i caratteri specifici di quella storia, sia per il più generale bisogno, in questa fine di secolo, di riuscire a ricostruirne la storia in un'ottica in cui sia centrale la dimensione della soggettività, o forse meglio della individualità. In questo senso, sembra oggi più che mai auspicabile una riconciliazione tra storia e memoria, più che mai necessario un nuovo patto tra le due. Il dibattito tra gli storici sul culto della memoria esaminato nella prima parte di questo scritto manteneva una divaricazione tra storia e memoria di cui invece le linee di storia della memoria della deportazione tracciate nella seconda parte hanno mostrato la sterilità. In realtà, come la memoria della deportazione ha a lungo invocato la storia, cosa la sua storia non potrà fare a meno della memoria: se é vero, infatti, che la memoria può e deve porre nuove domande alla storia, é altrettanto vero che la storia può e deve rispondere. In caso contrario, il rischio che la memoria non trovi più le forme per essere espressa e tramandata e quello che la storia non riesca a cogliere gli essenziali aspetti individuali dell'esperienza sarebbero altrettanto gravi. Pierre Vidal-Naquet, storico dell'età antica, ma allo stesso tempo, come si é già detto, studioso e avversario del revisionismo, in una recente intervista, criticava, come altri storici sopra ricordati, la sacralizzazione della memoria della Shoah ("non é rimanendo fissati sul passato che si andrà avanti. Come diceva Jaurés, é andando verso il mare che il fiume é fedele alla propria sorgente") e dichiarava la necessità del "passaggio dalla memoria alla storia". E tuttavia, a differenza di quegli altri storici, non contrapponeva i due termini, ma né auspicava l'intreccio: "Il problema per la mia generazione e per quella che seguirà (parlo sempre da storico) é di integrare Proust al lavoro dello storico, fare cioè della 'piccola Madeleine' un oggetto storico. Altrimenti, si ha l'abitudine di dire che c'è da un lato la memoria e dall'altro la storia: ma non é affatto così". Il caso paradigmatico della deportazione mostra, mi sembra, quanto tale intreccio sia in generale indispensabile per ripensare la storia del Novecento.

Anna Ross

 

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