Una favola di alti contenuti

L'opinione di Anna Maria Bruzzone

Nel vivo dibattito pro o contro il film "La vita è bella", alcune questioni mi sembrano essenziali. In particolare, le tre seguenti: la liceità o l'illiceità di ricorrere, rievocando i campi nazisti di sterminio, non soltanto alle documentazioni e immagini autentiche e alle rappresentazioni realistiche ma anche alle forme e ai linguaggi liberi dell'arte; il rispetto o la mancanza di rispetto verso gli avvenimenti e le condizioni storiche da parte di una fiaba quale il film di Roberto Benigni è; gli elementi centrali e i significati di fondo del film.
Alla poesia è riconosciuta la capacità di riuscire altrettanto efficace e per così dire vera, nel trattare le grandi tragedie dell'umanità, di un documentario o un testo di memoria o un'opera di saggistica; le si riconosce in ogni modo il pieno diritto di esprimersi al riguardo, sebbene proceda per metafore e simboli, evochi anziché descrivere. Come interpreti della Shoah amiamo tanto Nelly Sachs e Paul Celan quanto Primo Levi e Bruno Bettelheim.
Un tale diritto non pare ancora concesso con uguale larghezza e convinzione a una forma espressiva relativamente giovane e costitutivamente non elitaria come il cinema, soprattutto quando esso non esita ad affidarsi al comico e all'immaginario. Eppure di questo cinema, proprio con il nazismo come tema, esistono precedenti illustri. E' del 1940 "Il grande dittatore", in cui Charlie Chaplin colloca il discorso finale inneggiante alla libertà in una situazione della più aperta inverosimiglianza, e tranquillamente mescola tragicità e comicità ridendo di Hitler e dei suoi gerarchi, che seminano rovina e morte e progettano vastissimi stermini, e introducendo, nel cuore della feroce caccia all'uomo, episodi esilaranti che hanno per protagoniste le stesse vittime.
Ambientando una metà della storia nel tempo della Shoah in atto, Roberto Benigni non è ovviamente arrivato a tanto: comico e tragico sono nettamente distinti: al comico la prima parte e, dopo una sorta di breve intermezzo di raccordo, il tragico della seconda. Non credo che la sua fiaba "occulti", come sostiene Carlo Ossola, la verità dello sterminio. Credo che la avvolga in un velo. Ma nulla è taciuto. Non la morte onnipresente, anche se la montagna di cadaveri si intravede appena attraverso la caligine e più che altro riflessa nello sguardo atterrito del protagonista; non l'operazione Eutanasia, le selezioni, le camere a gas, i forni crematori.
Il film ci conduce addirittura fin sulla soglia di un camera a gas: lo zio del protagonista e altri con lui stanno per entrarvi (indimenticabili il gesto e le parole gentili dello zio verso una sorvegliante SS che inciampando cade e lo stupore di lei, l'incrociarsi ravvicinato di umanità e abitudine alla disumanità). Il protagonista stesso viene ucciso: ce ne rendiamo conto, ma la vista diretta del corpo abbattuto ci è risparmiata: egli esce di scena in punta di piedi, e di lui non si parla più, come di infiniti altri di cui il Lager ha cancellato anche il nome.
Perché deve trovare dei detrattori un film che sa dire l'orrore dei Lager senza mostrarlo, e così facendo impedisce che si confonda e si perda fra i tanti orrori che altri spettacoli dal vero o di finzione ci pongono crudamente e insistentemente sotto gli occhi?
Si direbbe che Benigni abbia imparato, adattandola al suo assunto e perciò portandola alle ultime conseguenze, la lezione delle sopravvissute e dei sopravvissuti che si sono dedicati a testimoniare, soprattutto nelle scuole: continuamente autocensurandosi, per non indulgere a descrizioni raccapriccianti (Lidia Beccaria Rolfi ha più volte teorizzato questa modalità dei loro colloqui con i giovani), e dosando con attenzione gli interventi, secondo l'età, la preparazione, la maturità degli ascoltatori.
Dal canto mio, confesso che, insegnando quella storia, ho spesso velato tante cose: e non proietterei in una scuola media inferiore Notte e nebbia, né metterei nelle mani di un adolescente un libro pure importante come Frantumi o in quelle di un alunno delle elementari certe pagine dello stesso Elie Wiesel.
Con mano delicata Benigni ha creato un film buono, e bello, che tutti, anche i bambini, possono vedere.
Quanto al rispetto per le vicende storiche, dissento da Daniel Vogelmann (ma mi addolora dissentire da coloro che hanno patito il Lager in se stessi o nei propri congiunti): perché sono convinta che, nonostante le licenze permesse alle fiabe, esso sia sostanzialmente assai alto.
I primi scoppi di manifestazioni ostili e le leggi razziali non mi risulta, per esempio, che abbiano provocato reazioni uniformi nei perseguitati: ai presentimenti di mali ancora peggiori, al ridestarsi di terrori antichi, alla disperazione da cui molti, come lo zio del film, furono presi si affiancò da parte di altri la fiducia, o la speranza, che l'attacco sarebbe stato temporaneo, che il pontefice si sarebbe adoprato per il riassorbimento di quei veleni, e che anche il re e lo stesso Mussolini avrebbero compreso l'insensatezza, oltre che la barbarie, della campagna razziale.
Anche altre generalizzazioni non riesco a condividere. I nazisti mirarono con i Lager a uccidere l'anima dei prigionieri, prima ancora che il corpo, ma non sempre ci riuscirono: fallirono dinanzi all'eroismo di un padre Kolbe, ma fallirono anche in presenza di resistenze meno evidenti e però diffuse, quali la "resistenza minimale" di cui ha raccontato Liana Millu, intessuta di gesti di solidarietà e di aiuto appunto minimi ma preziosissimi affinché si riuscisse a contrastare il cedimento morale e fisico.
Le fiabe insegnano, facendo trionfare il bene e trasmettendo modelli di atteggiamenti e comportamenti positivi, e dunque valori, che il lettore bambino (non soltanto bambino) assorbe senza avvedersene, mentre, immedesimato nei personaggi, vive le loro azioni e le loro vicissitudini. Attraverso quella madre, quel padre, quello zio, quei prigionieri che silenziosamente coadiuvano il protagonista nella finzione del gioco, quella stessa finzione inverosimile perché simbolica, passa un invito alla fiducia nella vita e negli esseri umani, alla gentilezza, alla pietà, alla solidarietà, all'amicizia, all'amore, alla tutela dei bambini e delle creature indifese in genere, che è quanto di più contrario si possa immaginare ai messaggi e alle opere dei nazisti.
Così il nazismo, e il male tout court, viene ripudiato e minato alle origini: chi di quei valori ha imparato a nutrirsi sarà agguerrito contro il male nella sua veste estrema e anche contro le varie forme della sofferenza inflitta ad altri, a partire dalle piccole crudeltà quotidiane.
Rispondo alla domanda finale di Daniel Vogelmann: questo è il buon seme che viene gettato dal film alle nuove generazioni; che sia difficile rimanervi insensibili me l'ha dimostrato per esempio un gruppetto di spettatrici all'incirca quindicenni, della fila di posti dinanzi alla mia, che come me non riuscivano a trattenere il pianto.
Cito ancora Carlo Ossola: il film sarebbe un esempio dell' "estetica emolliente" succeduta oggi all' "etica che obbliga".
Ricordo almeno un momento in cui brilla, ferma e assoluta, l' "etica che obbliga": la madre chiede e ottiene di salire sul treno che porta i suoi cari nel Lager. L'episodio conferma anche il fondamentale rispetto del film per la verità storica.
Il libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion documenta che simili atti di amore eroico si verificarono, anche in Italia: a somiglianza di Janusz Korczack, alcune persone, non ebree, accompagnarono volontariamente nel viaggio verso la morte coloro che amavano.