Almeno 40.000 italiani deportati in maggioranza per motivi politici,
10.000 scomparsi, oltre 9.000 italiani ebrei rinchiusi nei lager a causa
della loro religione fatta coincidere con l'appartenenza ad una razza:
sono le cifre della barbarie subita dai cittadini del nostro Paese negli
anni del sangue, della volontà arrogante, stupida e terribile,
dell'uomo di umiliare e distruggere l'altro uomo.
Migliaia di partigiani torturati ed uccisi. 650.000 soldati italiani
catturati dopo l'8 settembre '43, deportati nel Reich, ed in larghissima
maggioranza poi capaci di rifiutare la libertà che venne loro
offerta in cambio dell'adesione al nazifascismo: sono le altre cifre,
gli altri volti, dell'Italia che resistette e combatté per la
libertà insieme a chi finì a Mauthausen, ad Auschwitz,
ad Ebensee, a Bergen Belsen, a Ravensbrück, a Dora, alla Risiera
di San Sabba di Trieste, nei campi transito di Fossoli, Borgo San Dalmazzo,
Bolzano.
Sono queste le donne e gli uomini, morti, o sopravvissuti all'"inferno
dei vivi", che hanno vinto sulla barbarie nazifascista. Li ricordiamo
perché chi vive ha il dovere di riprendere i valori per cui gli
altri sono stati imprigionati, sono morti, e renderli criteri guida
della propria vita. Ma c'è un'altra ragione perché la
memoria di quegli anni sia mantenuta viva. Solamente il rapporto tra
le generazioni che si sono succedute nella storia di un Paese può
dare a quel Paese il senso della sua identità nazionale. Questa
identità si ritrova ripercorrendo il filo che attraversa i fatti
decisivi della nostra storia, lontani e vicini, per scoprire dentro
quei valori e dentro questa storia il significato unitario che li rende
nostri, riferibili al modo in cui noi italiani sentiamo la nostra appartenenza
al Paese.
Noi oggi possiamo essere uniti e liberi perché ci fu la lotta
di Resistenza, la Resistenza armata e quella civile, e perché
ci furono donne e uomini capaci di opporsi alla barbarie accettando
il rischio di essere deportati nei lager.
Richiamarne le ragioni serve a riappropriarci dei valori che ispirarono
quella lotta e quella forza di resistenza.
I partigiani mentre combattevano, non sapevano se avrebbero vinto o
perso. Nei campi i deportati politici ed ebrei, gli internati militari,
erano tenuti il più possibile all'oscuro delle vicende belliche
e politiche. Tutto faceva pensare che avrebbero perso, che lo sterminio
e la Shoah non si sarebbero potuti arrestare prima dell'eliminazione
totale. Eppure furono in tanti a combattere, in tanti, nei campi a resistere.
Furono in tanti a cadere, fucilati, torturati nelle carceri, per gli
stenti nei lager, ma furono in tanti a prendere il loro posto. E furono
tanti che caddero per la semplice, profonda ragione che erano italiani,
testimoni di una nazione che non voleva piegarsi. Colpevoli di vivere
in una terra in cui si combatteva per la libertà. I primi caddero
perché combattenti, o perché erano di religione ebraica.
Gli altri caddero perché testimoni. Ricordiamo gli uni e gli
altri con lo stesso affetto, con la stessa memoria. Quella generazione
ci ha lasciato una lezione, che va rinnovata nella storia e nella memoria.
Per questo la mostra promossa dall'Aned è importante. Una mostra
che è molto di più di una rassegna iconografica: è
appunto un percorso intenso nel ricordo, nella storia, per rinnovare
la memoria. Ed è fondamentale che questo itinerario sia stato
concepito e realizzato per una parte significativa da studenti e docenti
universitari. In tal modo si è raggiunto un duplice obiettivo.
È stato costruito un documento storico-iconografico che rende
immediatamente percepibili le violenze perpetrate sui deportati per
affermare l'arroganza stolida e inumana del totalitarismo, le difficoltà
del rientro e quelle ancor più dure degli anni in cui, per vie
diverse, si è realizzata una confusione, se non una vera e propria
cancellazione della memoria.
Dall'indomani della liberazione, e per decenni gli organi di informazione,
ma anche ampi settori del mondo politico, hanno infatti confuso i deportati
con gli internati militari, e tutti questi con i reduci. Negli anni
'40-'60 lo spazio editoriale per le loro memorie fu particolarmente
limitato, mentre la storiografia ha lasciato questi temi ai margini
della sua riflessione sino ad anni molto recenti. Tutto ciò ha
determinato ulteriori sofferenze, nuovi isolamenti e solitudini per
chi aveva già subito sulla propria pelle, nel proprio animo,
le lacerazioni inflitte dagli uomini inumani dei lager, dai kapo. Sul
piano politico e storico ciò ha determinato una sottovalutazione,
più o meno consapevole, del ruolo che i deportati politici, ed
anche gli internati militari (la vicenda di Dora insegna), ebbero nella
lotta antifascista, nella costruzione della democrazia, nell'affermazione
dei valori che furono poi alla base della Costituzione.
Questa mostra, e le iniziative collaterali dei prossimi giorni, assumono
un grande valore proprio per l'accento posto su queste lacune, su questi
sfasamenti prodotti nella coscienza civile e politica degli italiani
nell'epoca della Repubblica e della democrazia. Le manifestazioni del
Comitato, le testimonianze che saranno rese nel corso di questa settimana,
permetteranno infatti di comprendere le ragioni più profonde
ed autentiche per cui nella nostra Carta fondamentale trovano ampia
tutela i diritti inviolabili dell'uomo e delle persona, non solo quelli
del cittadino, e così il principio delle pari dignità
sociali.
Ma, dicevo, che le modalità con cui è nata la mostra costituiscono
un ulteriore valore di questa manifestazione, valore che va apprezzato
e rilanciato. Il fatto che in misura così rilevante essa sia
realizzata da studenti è di per sé un elemento formativo
e di crescita culturale di straordinario valore per chi non ha vissuto
quegli anni. Gestire insieme agli studenti la ricostruzione della memoria
e la diffusione della conoscenza delle vicende legate alla deportazione
è un modo incisivo con cui si ferma nella coscienza di ognuno
la consapevolezza dell'orrore della violenza e dello sterminio, ma anche
il rischio dell'oblio e la necessità della memoria.
È in questa direzione che tutti dobbiamo impegnarci per promuovere
la diffusione della memoria degli stermini che hanno accompagnato e
seguito la seconda guerra mondiale. I ragazzi italiani non hanno, se
non eccezionalmente, nella loro formazione la visita ai luoghi dello
sterminio nazista. Occorre fare in modo che le ragazze ed i ragazzi
italiani, come fanno i loro coetanei tedeschi, olandesi o francesi,
conoscano con i loro occhi quella realtà ed imparino quanto è
tragicamente facile porsi sullo scivolo che porta alla distruzione dell'altrui
dignità. Per questo è importante l'inchiesta condotta
sulla coscienza storica dei giovani europei che verrà presentata
qui il 18 novembre. Ed è con questi stessi intenti che quest'estate,
dopo una visita a Ravensbrück, ho scritto al presidente del Consiglio
chiedendogli di valutare l'opportunità che nella prossima legge
finanziaria siano inseriti stanziamenti per favorire le visite ai campi
di sterminio. Il presidente Prodi mi ha risposto tempestivamente, sensibilizzando
i ministeri competenti.
Confidiamo in un rapido avvio di questa "iniziativa della memoria",
assicurando così anche ai ragazzi del nostro paese un momento
importante nel loro percorso formativo.
Proprio in questi giorni, quando la Chiesa cattolica avvia una serrata
riflessione sull'antisemitismo e sulle ragioni che determinarono, secondo
le stesse parole del pontefice, "un'attenuazione delle coscienze
di fronte alla Shoah" è importante avere consapevolezza
che solo la memoria di quei fatti, rivissuta in ognuno di noi, nella
chiarezza e nella forza della loro evidenza storica, della loro disumanità,
costituirà il vero argine contro qualsiasi nuovo tentativo di
distruggere l'altrui dignità. Bisogna riuscire, come ci propone
questa mostra, a coinvolgere le nuove generazioni nella riflessione
comune, nella comprensione dei fatti e dei meccanismi che resero possibili
i campi di concentramento, la deportazione politica, la Shoah, ma anche
i silenzi dei contemporanei, l'indifferenza attorno ai deportati che
rientravano. E, d'altra parte, un'indagine pubblicata lo scorso anno
(si tratta del questionario "Dai lager alla 'pulizia etnica': razzismo
ed intolleranza tra storia ed attualità", distribuito a
studenti delle superiori in Val d'Aosta) ci dice che sono i ragazzi
stessi a voler sapere di più sui campi di sterminio: ben il 95%
di loro.
La stessa inchiesta ci informa che il 55% non conosce la realtà
dei campi in Italia, mentre per il 63% c'è ancora molto da dire
e da documentare su quanto avvenne nei lager perché "sono
stati sempre poco valorizzati i testimoni, preferendo ad essi un racconto
mediato da considerazioni generali". Ma un dato ancor più
rilevante è che alla domanda "perché il giovane assume
atteggiamenti di intolleranza?", in una risposta che ammette l'indicazione
di tre possibili cause, il 50.9% risponde "per scelta ideologica",
il 59.7% "per disorientamento", il 30.9% "per affermazione
di identità". Essi ritengono, inoltre, che la prevenzione
della violenza e dell'intolleranza non si ottenga con una forte repressione,
ma invece proprio con una maggior informazione (43%) e con strutture
sociali (33.3%).
Anche alla luce di questi dati vi è, allora, un altro obiettivo
che dobbiamo raggiungere, quello della penetrazione in spazi sempre
più ampi del mondo dei giovani. In questo senso credo che, anche
in Italia, si debba avviare un'opera capace di togliere quella patina
opaca che ogni tanto le parole, o i riti, di alcuni momenti celebrativi
depongono sulla realtà di quei fatti.
Se vogliamo davvero raggiungere i più giovani in questa "iniziativa
di diffusione della memoria" è necessario evitare che un
eccesso di sacralizzazione commemorativa, o una mera demonizzazione
di quei momenti storici, compromettano la percezione, la conoscenza
e quindi il rifiuto e la condanna del nazifascismo anche nella forma
in cui quella concezione oggi, a volte, si presenta nelle nostre strade.
Solo così non si riprodurranno i miti dell'Eroe negativo o un'altrettanto
pericolosa indifferenza che è la premessa per qualunque degenerazione
politica.
on. Luciano Violante
presidente della Camera dei Deputati
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