Il 17 febbraio 1945, duecentoquattordici ufficiali italiani internati
in Germania, fummo obbligati a lasciare l'Oflag, 83 di Wietzendorf per
essere avviati al lavoro, in applicazione dell'accordo Mussolini-Hitler
del 20.7.1944, secondo cui gli internati nei campi di concentramento
tedeschi venivano liberati e considerati liberi lavoratori in Germania.
A nulla valsero le proteste
A nulla valsero le proteste rivolte, anche per iscritto al lager-fuhrer
con cui chiedevamo, in applicazione delle norme internazionali di Ginevra,
firmataria anche la Germania che noi, ufficiali prigionieri, non potevamo
essere obbligati a lavorare. Il comandante del campo italiano, Ten,
col, Pietro Testa, a cui ci rivolgemmo per intercedere nei confronti
del lager-fuhrer, ci riferì che i tedeschi, malgrado i suoi reiterati
interventi, erano irremovibili; pertanto fummo costretti a lasciare
il lager. Fummo portati in un campo di aviazione civetta in località
Dedelsdorf. Era intendimento delle autorità militari germaniche
di riattivare quel campo. I 214 ufficiali, col loro lavoro avrebbero
collaborato per rendere agibile l'impianto. Fummo sistemati in alcune
camerate arredate con letti a castello a due posti e qualche tavolo.
Non ci rassegnammo all'idea di dovere collaborare con i nostri detentori:
per ogni uomo precettato per il lavoro, la Germania avrebbe ricavato
un soldato.
Il rifiuto di collaborare
Decidemmo all'unanimità di rifiutarci. Non eravamo disponibili
a prestare la nostra opera. La dignità di ufficiali prigionieri
di guerra, posizione giuridica che i tedeschi non ci riconoscevano,
ci impediva di collaborare. Il comandante del campo di aviazione ci
consigliava di adeguarci alle norme vigenti in Germania e di rinunciare
alla nostra presa di posizione perché poteva procurarci dei guai.
E ci ammoniva: "Se dovesse intervenire la Gestapo adotterebbe duri
provvedimenti per i dissidenti".
E venne il giorno della Gestapo. Dopo otto giorni di astensione dal
lavoro, il 24 febbraio 1945, entrò nelle camerate un capitano
della Gestapo, accompagnato da un sottufficiale e da un galoppino italiano,
un sottotenente della R.S.I., che fungeva da interprete. Una persona
severa, dal viso corrugato, dallo sguardo penetrante e pungente. Si
fermò in mezzo alla camerata, ruotò il capo di 180°,
con gli occhi, che anticipando il movimento del capo, fotografò
i nostri visi fieri e risoluti.
"Intollerabile ribellione"
Dopo avere ripetuto il rito in altre camerate, diede l'ordine di adunarci
nello spiazzo antistante il fabbricato che ci ospitava. Con l'aiuto
dell'interprete e con l'arroganza che il caso richiedeva, disse che
la nostra ribellione agli ordini impartiti dal Reich non poteva essere
tollerata. "Sapete che in Germania sono proibiti gli scioperi,
voi avete avuto l'ardire di scioperare, trasgredendo gli ordinamenti
del paese che vi ospita.
La Germania è in guerra e tutti, anche gli stranieri sono obbligati
a lavorare. In Germania chi non lavora non mangia." Adesso il sig.
capitano, traduceva il galoppino, indicherà 21 di voi, cioè
uno per ogni dieci, che saranno puniti. Davanti a noi inquadrati, si
ergeva statuario il capitano della Gestapo con le gambe un po' divaricate.
Alzo il braccio destro 21 volte per indicare altrettanti compagni, formando
un plotoncino che venne portato via. E, per concludere, il capitano
minacciò gli altri: "Questi vostri colleghi non li rivedrete
più. Chi si rifiuterà di prestare la sua opera farà
la stessa fine". A questo punto un certo numero di dissidenti,
decisi a non mollare, coscienti di subire le relative conseguenze, uscimmo
dalle fila formando un nuovo plotone. L'ufficiale anziano si recò
dal capitano della Gestapo che stava per allontanarsi ed annunciò
che i componenti il plotone non avevano nessuna intenzione di prestare
la loro opera per la Germania e chiedevano di sostituire i 21 compagni
che erano stati portati via. All'ingresso della prigione del campo di
aviazione incontrammo i 21 e, conosciuto il motivo dell'incontro, alcuni
di loro si accodarono al nostro gruppo. Così formammo un plotone
che in totale contava 44 unità. Ci condussero nel cortile della
prigione di forma quadrata di metri 10x10 circa con un muro che lo cingeva
da tre lati alto circa quattro metri. L'altro lato era delimitato dal
fabbricato della prigione. Restammo nel cortile dalle 10 circa alle
16, quando arrivò un trattore che tirava un rimorchio per trasporto
merci. Il trattore era pilotato da un aviere italiano. La scorta armata
era formata da alcuni militi S.S. Chiedemmo all'aviere dove fossimo
diretti. "Ad Unterlüss, ci rispose, dove c'è un lager."
L'incontro con le giovani ebree
Prima di arrivare al lager incontrammo un gruppo di giovani donne ridotte
allo stato scheletrico, con dei vestiti zebrati e la stella di Davide.
Le sventurate, in fila per sei, si reggevano in piedi perché
si sostenevano a vicenda tenendosi per le braccia, formando una sola
struttura che avanzava lentamente in mezzo alla strada che conduceva
al lager. Tornavano dal duro lavoro con la superflua scorta dei Kapos,
rientravano nel lager consapevoli che le superstiti energie per la sopravvivenza
erano ridotte al lumicino. Noi guardavamo increduli ed esterrefatti
quelle creature; era ciò che restava di esseri umani. In quei
momenti non pensavamo che dopo qualche settimana di soggiorno in quel
luogo di tormento, che era il lager di Unterlüss, ci saremmo ridotti
nelle medesime condizioni di quelle disgraziate!
Un capannone rettangolare
Mi è gradito riportare come si esprime il ten. col. Pietro Testa
nel suo libro Wietzendorf nel citare l'episodio dei 44 di Unterlüss
"... proprio da questi obbligati uscì quella schiera di
uomini che affrontò serenamente e volontariamente il campo di
punizione; uomini che toccarono le mete dell'autentico valore militare
ed anche quella della eroica morte.
Senza armi, già in potere del nemico, essi hanno offerto se stessi
al quotidiano linciaggio con la determinata volontà di perdere
la forza di resistenza solo con l'ultima luce di vita".
Il lager di Unterlüss era composto di un capannone rettangolare
in muratura coperto da un tetto di eternit ondulata. Un lato destinato
a cucina. Il tutto contenuto in uno spazio il cui perimetro era cinto
da un reticolato con relative torrette per le sentinelle S.S. Ospitava
circa 300 detenuti di tutte le nazionalità, in prevalenza dell'Europa
orientale.
Il nostro compagno bastonato a morte
Il lager era gestito da due lager-fuhrer, un civile ed un ufficiale
della Gestapo. Il primo aveva il compito di gestire la manodopera dei
detenuti, moderni schiavi: costui aveva l'incarico di fornire manodopera
per quanti la richiedessero sfruttando i detenuti che praticamente erano
considerati alla stregua degli animali. Il secondo era responsabile
della disciplina del lager. Si avvaleva dell'opera di militi S.S. e
di aguzzini (i Kapos) scelti fra i più feroci internati nel lager.
I loro nomi erano: Ivan, Paulus, Jascka e Peter. Quest'ultimo, un rinnegato
serbo, dopo la fine della guerra fu condannato all'impiccagione dal
Tribunale alleato per avere bastonato a morte un prigioniero. Il prigioniero
bastonato era il nostro compagno Giorgio Tagliente. Alla ferocia delle
S.S. si aggiungeva quella degli aguzzini rendendo impossibile la vita
ad un normale essere umano.
Ci sparava mentre correvamo
Era una serata fredda; la neve imbiancava i tronchi degli alberi ammassati
nel cortile. Un sottufficiale delle S.S., alcuni aguzzini ed un uomo
in borghese dall'aspetto burbero (che successivamente sapemmo trattarsi
del lager-fuhrer civile), ci accolsero nel lager. Per darci l'idea del
luogo in cui ci trovavamo ci obbligarono a correre in giro per il cortile,
creando un'atmosfera di terrore. Il sottufficiale estrasse la pistola
scaricando il caricatore nella direzione delle nostre gambe; per fortuna,
non ci colpì.
Gli aguzzini, armati di tubi di gomma animati, scaglionati lungo il
perimetro circolare del nostro itinerario, sfogavano la loro ferocia
colpendoci indiscriminatamente. Agli animali dei circhi equestri, costretti
a trottare per lavoro, è riservato un trattamento umanitario,
mentre noi esseri superflui, fastidiosi per il Reich, era riservato
un trattamento peggiore di quello usato agli animali non protetti.
Natale Ferrara
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