Ferdinando Ambiveri immortalò la sua esperienza in un diario
giunto all'Aned di Sesto San Giovanni mancante purtroppo delle prime
due pagine. Era nato a Busnago l'11.2.1912, lavorava alla Falck Unione
come muratore quando venne arrestato il 28.3.44. Giunto a Mauthausen
l'8.4.44 divenne la matricola 61546.
Il diario mancante delle prime due pagine comincia così "...
a scendere dalla scala con un pensiero che dovevo andare in Germania
ma il secondo pensiero era quello di lasciare la moglie e la bambina
che aveva solo tre anni. Appena giù dalla scala vidi altri
due carabinieri dopo 90 metri circa ne vidi altri due ed io pensavo
in me che se avessi ammazzato un reggimento di fascisti non veniva
tutta questa gentaglia".
"Arrivai in paese (probabilmente Ambiveri era stato prelevato
da casa n.d.r) vidi un furgone e mi buttarono su come se fossi un
sacco di fieno, lì trovai altri compagni, il furgone si mise
in marcia e mi portarono in caserma a Brugherio."
Ferdinando viene poi mandato a Monza e dunque a Bergamo da dove riesce
ad avvisare la famiglia "e dopo un paio di giorni arrivò
la moglie e i miei fratelli che mi portarono la biancheria e dico
loro piangendo di rabbia di non pensare a me bensì alla bambina
che tanto le volevo bene e diedi una saluto alla moglie e alla bambina
ed ora comincia la via crucis."
È il cinque aprile quando Ambiveri parte da Bergamo alla volta
di Mauthausen: "... eravamo in 340 uomini e quaranta donne. Ci
mettiamo in colonna, erano le ore 4.30 circa del giorno 8 aprile,
dopo tanta strada si arrivò vicino al campo, vidi una garetta
con la testa di morte poi sentii un odore di carne umana bruciata,
mi rivolgo ai compagni e dico: sentite che odore di carne umana. Vidi
il camino del famoso crematorio e dico ai compagni: non si ritorna
più nessuno di qui."
Il diario prosegue raccontando l'ingresso nel campo, la privazione
dei vestiti e degli oggetti personali, la depilazione, la brutalità
delle SS "vidi un altro compagno preso per la cravatta che lo
portarono sul marciapiede vicino a me e cominciarono a picchiare con
pugni sulla faccia e il cane che lo prende per i piedi e gli stracciò
tutti i pantaloni e le gambe che sembrava uno tutto tagliato".
Vestito con mutandoni e camicia a righe, ai piedi un paio di zoccoli
viene mandato in baracca. Trascorrono tra botte, freddo e fame i primi
35 giorni "e dopo i miei compagni sono partiti per destinazioni
ignote e sono rimasto solo con tre compagni perché eravamo
muratori... Lavorato per costruire una cinta per allargare il campo.
Vidi arrivare altri compagni italiani che dopo due o tre giorni mandarono
a portare le pietre dove lavoravo io. Erano più pesanti di
loro, accompagnati dalle SS con dei grossi cani lupo che facevano
correre dietro le loro gambe. Io lavorando vedevo come trattavano
male i miei compagni e mi cadevano lacrime dagli occhi grosse come
pugni pensando che le dovevo prendere anch'io come loro".
"Il giorno dopo lavoravo sull'altro lato della muraglia e vidi
arrivare circa 500 ebrei uomini, donne e bambini piccoli anche di
5 o 6 mesi. Venivano mandati nel blocco di eliminazione dove venivano
scelti quelli abili al lavoro e il resto fucilati in massa e dopo
trasportati nel forno crematorio. Trascorso qualche giorno vidi prendere
un bambino di 5 mesi circa lo presero per le gambine e lo buttarono
in alto e l'altro soldato con una scarica di mitra ci fece il bersaglio."
"Alla metà di maggio che lavoravo in paese, un borghese
che lavorava dove lavoravo io andò dal comandante a dire che
non lavoravo e così dopo mezzogiorno mi chiamò e cominciò
a picchiare con una canna peer 25 volte e poi mi mise a lavorare conme
un cavallo sotto l'aratro."
Il manoscritto continua raccontando la malattia sopraggiunta, la pleurite,
la fortunata e quasi miracolosa guarigione date le condizioni igieniche
ed alimentari più che precarie e poi i bombardamenti sulla
città di Linz, la cattura e la morte immediata di quattro paracadutisti
catturati e subito portati al campo fino al trasferimento a Vienna
dove "... si comincia di nuovo a lavorare come schiavi, era il
mese di luglio 44".
"Al mese di settembre una sera tornavamo tranquilli al campo
(lavorava in un vecchio castello per trasformarlo in una officina
n.d.r) tranquilli, d'un tratto una macchina passa a tutta velocità
e investì i miei compagni che caddero stramazzati, io mi sono
messo le mani in testa la macchina si ferma ed io con altri compagni
li abbiamo caricati. Uno era un italiano che si chiamava Melite Michele
di Potenza (è Milito Michele matr. 76664 n.d.r) e altri due
polacchi; in tutto erano nove. Li hanno portati al campo ma il compagno
italiano è morto e altri due sono rimasti paralizzati ma il
dottore che era un italiano li curava e dopo qualche mese sono guariti."
Seguirono quattro mesi di bombardamenti, mancò l'acqua potabile
ma nella disperazione più totale si cominciava a respirare
la possibilità della liberazione da parte dei russi. "La
sera del 31 marzo eravamo tutti contenti perché si sentiva
il rombo dei cannoni russi vicini. "La mattina del primo aprile
tutti i prigionieri vennero fatti preparare per la partenza, destinazione
ignota. Ben presto la speranza della liberazione venne infranta da
una marcia estenuante senza mangiare né dormire per giorni
interi.
"Tutti i miei compagni che non potevano più camminare
li ammazzavano con un colpo di fucile dietro la nuca... Verso il cinque
aprile ci siamo fermati di nuovo in una cascina per 5 giorni perché
pioveva. Tutti conci e pieni di pidocchi senza mangiare... in quei
giorni sono morti 5 compagni. Di sera tutti si lamentavano e così
le SS saltavano dentro con le scarpe ci camminavano sopra e picchiavano
con il calcio del fucile..... Il giorno della partenza tutti quelli
che erano sfiniti sono stati fucilati e sepolti sul posto in una sola
buca come quando si conservano le patate."
Riprende così la lunga marcia, il 13 aprile arrivano alla città
di Staer, e internati di nuovo in un campo. Il narratore con una meticolosità
incredibile cerca di ricordare esattamente date e quanti furono i
compagni morti.
Tuttavia la sosta nel nuovo campo è breve, le truppe alleate
avanzano e i tedeschi decidono di riportare tutti i prigionieri verso
Mauthausen. Vi arrivarono la mattina del 30 aprile. Subite nuovamente
le procedure di internamento con tanto di doccia fredda e depilazione
ricomincia la vita atroce del campo.
Ma la liberazione è ormai vicina. "Alla mattina del primo
maggio verso le ore nove si sente gridare che la guerra era finita,
tutti ci baciavamo piangendo dalla contentezza ma io guardavo fuori
dalle baracche per vedere se cambiava il trattamento ma nel campo
vidi ancora passeggiare le SS ed ho pensato subito male perché
era tanto tempo che aspettavamo la fine."
"Passarono altri 4 lunghi giorni di stenti fino al giorno 5 maggio
alle ore 15.30 circa si vide arrivare un carro armato e due camionette
con le bandiere." Il diario del nostro Ferdinando Ambiveri si
conclude così, senza ulteriori commenti, ma con una lista di
nomi, uomini che aveva conosciuto e che voleva tenere a mente per
darne immediata notizia alla famiglia o forse per donargli quel briciolo
di immortalità che solo la memoria ed il ricordo possono garantire.
Ferdinando Ambiveri è morto negli annti settanta.
Monica Credi
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