Due viaggi. Lo stesso itinerario: da Prato
a Ebensee - in Austria - a distanza di molti anni. Il secondo ravviva
la memoria del primo. Il luogo di partenza è quello dei grandi
rastrellamenti del marzo '44 che avviarono nei campi di sterminio centinaia
di operai, colpevoli di aver scioperato.
Il luogo d'arrivo è una località nei pressi di Mauthausen,
sede di un "sottocampo" con forni crematori e cave per il lavoro forzato.
Nel secondo viaggio i reduci e i parenti delle vittime dei nazisti ripercorrono
in pullman l'itinerario dei vagoni blindati di oltre cinquant'anni fa.
L'tinerario nella memoria è raccontato
in un bel film di Massimo Sani, Un futuro per la memoria, presentato
a Prato, in occasione del rinnovato gemellaggio tra la città
toscana e quella di Ebensee. L'opera di Sani - che si avvale della consulenza
storica di Enzo Collotti - ricostruisce una vicenda dimenticata, attraverso
il racconto dei protagonisti che ricordano e si specchiano nelle immagini
del film. La storia è quella di una grande deportazione "di classe".
Nel 1944 Prato era una città operaia, 60.000 abitanti, 15.000
tessili.
Nel marzo di quell'anno i lavoratori italiani scioperano contro la guerra
e i nazisti, contro la fame, i ritmi di lavoro quasi forzati, la presenza
in fabbrica dei repubblichini come vigilantes.
A Prato lo sciopero fu fissato per il 4 marzo e bloccò l'intera attività
delle imprese che in gran parte producevano per l'esercito tedesco.
La rappresaglia volle essere immediata ed esemplare: 346 lavoratori
vennero arrestati - a casa, per le vie, nelle piazze della città
- e avviati verso Firenze, da dove partirono i vagoni blindati per Mauthausen.
Quei vagoni, lungo la strada, raccolsero anche altri operai colpevoli
dello stesso reato e accomunati tutti nella stessa sorte, dopo tre giorni
di viaggio, senza cibo e senza acqua: essere rinchiusi nei Lager tedeschi
e sottoposti al lavoro forzato a scopo bellico. Gli operai di Prato,
da Mauthausen vennero destinati al "sottocampo" di Ebensee e impiegati
nelle cave di pietra e nello scavo di gallerie che dovevano supportare
la fabbricazione dei missili V2. Solo 19 sopravvissero.
Questi anziani operai ora raccontano il Lager, con il triangolo rosso
dei deportati politici all'occhiello della giacca. Le parole sono le
stesse di tutti i reduci dei "campi": la fame e il "menù" mensile
(un cucchiaio di marmellata, uno di formaggio, uno di carne in scatola,
quattro grammi di margarina e due chili di pane); i lunghi turni di
lavoro (da dodici a sedici ore) e la paura di diventare troppo deboli
e magri da essere scelti come carne per i forni; e, poi, la voglia di
raccontare dei pochi sopravvissuti e la difficoltà di farlo,
di essere ascoltati. Riemerge l'ansia di Primo Levi - il suo "aggredire"
passeggeri d'autobus e passanti torinesi per divulgare la sua storia,
per raccontare ciò che sembrava incredibile ai più - nelle parole
dell'ex internato polacco di Ebensee, rimasto in quel luogo dopo la
fine della guerra,-inascoltato e ignorato per decenni dai suoi nuovi
concittadini austriaci. Perché il campo di Ebensee non solo venne
distrutto fisicamente e il terreno che occupava riconvertito a basso
costo in zona residenziale, ma fu anche cancellato - dai discorsi e
dai pensieri - dalla vergogna dei civili che per parecchi mesi ci avevano
vissuto accanto.
Solo una decina d'anni fa, grazie a nuovi amministratori, la vergogna
del campo di sterminio riemerse dall'oblio e questo permise un "gemellaggio
di pace" tra Prato ed Ebensee.
Così oggi gli operai di Prato, le famiglie degli scomparsi, possono
recarsi in quel luogo, guardarsi in faccia, riconoscersi, raccontare
a giovani austriaci e italiani storie uscite da un mondo di "notte e
nebbia".
Gabriele Polo
|