Presentato il 5 settembre scorso dal regista Massimo Sani

Diventa un film quel viaggio da Prato a Ebensee

 

Due viaggi. Lo stesso itinerario: da Prato a Ebensee - in Austria - a distanza di molti anni. Il secondo ravviva la memoria del primo. Il luogo di partenza è quello dei grandi rastrellamenti del marzo '44 che avviarono nei campi di sterminio centinaia di operai, colpevoli di aver scioperato.
Il luogo d'arrivo è una località nei pressi di Mauthausen, sede di un "sottocampo" con forni crematori e cave per il lavoro forzato. Nel secondo viaggio i reduci e i parenti delle vittime dei nazisti ripercorrono in pullman l'itinerario dei vagoni blindati di oltre cinquant'anni fa.

L'tinerario nella memoria è raccontato in un bel film di Massimo Sani, Un futuro per la memoria, presentato a Prato, in occasione del rinnovato gemellaggio tra la città toscana e quella di Ebensee. L'opera di Sani - che si avvale della consulenza storica di Enzo Collotti - ricostruisce una vicenda dimenticata, attraverso il racconto dei protagonisti che ricordano e si specchiano nelle immagini del film. La storia è quella di una grande deportazione "di classe". Nel 1944 Prato era una città operaia, 60.000 abitanti, 15.000 tessili.
Nel marzo di quell'anno i lavoratori italiani scioperano contro la guerra e i nazisti, contro la fame, i ritmi di lavoro quasi forzati, la presenza in fabbrica dei repubblichini come vigilantes.
A Prato lo sciopero fu fissato per il 4 marzo e bloccò l'intera attività delle imprese che in gran parte producevano per l'esercito tedesco.
La rappresaglia volle essere immediata ed esemplare: 346 lavoratori vennero arrestati - a casa, per le vie, nelle piazze della città - e avviati verso Firenze, da dove partirono i vagoni blindati per Mauthausen. Quei vagoni, lungo la strada, raccolsero anche altri operai colpevoli dello stesso reato e accomunati tutti nella stessa sorte, dopo tre giorni di viaggio, senza cibo e senza acqua: essere rinchiusi nei Lager tedeschi e sottoposti al lavoro forzato a scopo bellico. Gli operai di Prato, da Mauthausen vennero destinati al "sottocampo" di Ebensee e impiegati nelle cave di pietra e nello scavo di gallerie che dovevano supportare la fabbricazione dei missili V2. Solo 19 sopravvissero.
Questi anziani operai ora raccontano il Lager, con il triangolo rosso dei deportati politici all'occhiello della giacca. Le parole sono le stesse di tutti i reduci dei "campi": la fame e il "menù" mensile (un cucchiaio di marmellata, uno di formaggio, uno di carne in scatola, quattro grammi di margarina e due chili di pane); i lunghi turni di lavoro (da dodici a sedici ore) e la paura di diventare troppo deboli e magri da essere scelti come carne per i forni; e, poi, la voglia di raccontare dei pochi sopravvissuti e la difficoltà di farlo, di essere ascoltati. Riemerge l'ansia di Primo Levi - il suo "aggredire" passeggeri d'autobus e passanti torinesi per divulgare la sua storia, per raccontare ciò che sembrava incredibile ai più - nelle parole dell'ex internato polacco di Ebensee, rimasto in quel luogo dopo la fine della guerra,-inascoltato e ignorato per decenni dai suoi nuovi concittadini austriaci. Perché il campo di Ebensee non solo venne distrutto fisicamente e il terreno che occupava riconvertito a basso costo in zona residenziale, ma fu anche cancellato - dai discorsi e dai pensieri - dalla vergogna dei civili che per parecchi mesi ci avevano vissuto accanto.
Solo una decina d'anni fa, grazie a nuovi amministratori, la vergogna del campo di sterminio riemerse dall'oblio e questo permise un "gemellaggio di pace" tra Prato ed Ebensee.
Così oggi gli operai di Prato, le famiglie degli scomparsi, possono recarsi in quel luogo, guardarsi in faccia, riconoscersi, raccontare a giovani austriaci e italiani storie uscite da un mondo di "notte e nebbia".

Gabriele Polo