Grazie ad un articolo del nostro giornale
"Dal giornale ho saputo che era
vivo e mi cercava" Si sono ritrovati dopo mezzo secolo. L'ultima volta che si erano visti era stato lassù, come dicono, nel Lager di Dachau, il primo allestito dai nazisti in Germania, certamente uno dei più terribili. Negli ultimi mesi della guerra Giovanni era stato trasferito in un altro campo, ad Ausburg, a pochi chilometri di distanza da Monaco. Salvatore era rimasto là. 0gni mattina all'alba lasciava la baracca, il Block 25, dove dormiva ammucchiato insieme a tanti altri italiani, e andava a fare il suo lavoro, quello che gli aguzzini lo costringevano a fare. Poi tornava ogni sera, serbando il segreto. Un segreto che si è portato dentro per anni, per decenni. Solo qualche tempo fa Salvatore ha cominciato a parlare della sua terribile esperienza, liberandosi forse di un peso, togliendosi un macigno dal cuore. Tre anni fa Salvatore accettò di riferire della propria vicenda con Teo Ducci, dell'Aned. Il quale trasse da una lunga conversazione con il superstite di Dachau un'intervista che il nostro giornale pubblicò nel numero I del 1993, uscito nel marzo di quell'anno. E così Giovanni seppe che il suo amico di allora era ancora vivo e in buona salute, e che per ben due anni, "lassù" aveva lavorato nelle squadre addette ai forni crematori. E seppe che Salvatore aveva inutilmente cercato di mettersi in contatto con qualcuno dei suoi compagni di sventura "a Milano, a Roma, attraverso Radio Gubbio". Letto quell'articolo, Giovanni decise di mettersi alla ricerca del suo amico. Una trafila lunga, ma fortunata. Giovanni si rivolse a Gianna Zanon, vulcanica presidentessa della sezione Aned di Schio. E Gianna contattò Teo Ducci, autore dell'articolo. Ducci recuperò l'indirizzo di Salvatore. Una prima lettera, una risposta, e poi finalmente, nel novembre scorso, il momento dell'incontro a Gubbio. "No francamente, sulle prime non ci siamo riconosciuti, ammette adesso sinceramente Giovanni Ceribella. "Sono passati 50 anni, e poi cosa vuoi: eravamo tanto diversi allora. Avevamo poco più di 20 anni... E poi io Salvatore lo ricordavo con la divisa del deportato, magro da fare impressione, coi capelli rasati... Non avrei potuto riconoscerlo a prima vista". Dopo il primo attimo di sconcerto, però sono cominciati i ricordi: gli amici lasciati 'Iassù", gli episodi vissuti insieme; la fame, la fatica, la solidarietà. E sono arrivate le prime lacrime, la commozione.
Cinquant'anni sembravano volati, cancellati. Un vincolo allentato così all'improvviso allora tornava a stringersi tra i due amici. Dopo la fotografia scattata per celebrare l'avvenimento, i saluti e la promessa: ci scriveremo, torneremo a rivederci. "E ci siamo già scritti infatti. E abbiamo già deciso la data del prossimo incontro. Andremo insieme a Dachau, il prossimo 30 aprile, alle commemorazioni del cinquantesimo. Sia io che lui torneremo in quel Lager allora per la prima volta. In tutti questi 50 anni non l'abbiamo mai fatto. Adesso, insieme, forse sarà meno difficile". Vi conoscevate già prima di arrivare a Dachau? "No, ci siamo conosciuti su quel maledetto treno. Eravamo tutti e due militari, io alpino e lui carrista. Un giorno ci hanno prelevato da Peschiera e ci hanno stivato in un carro merci. L'ho conosciuto perché era paesano di un mio amico, Guerino Parifili, un ragazzo grande e grosso che si è salvato dal Lager, ma ne è uscito così malconcio che è morto un anno dopo essere tornato a casa. Salvatore in un primo tempo l'avevano messo a lavorare nelle cucine, e riusciva sempre a portare fuori qualcosa da mangiare di nascosto. Dava una patata o un avanzo di minestra al suo compaesano. E lui una volta mi ha portato con sé, e così siamo diventati amici io e Salvatore". "Poi un giorno, mentre usciva dalle cucine, e scendeva quei pochi gradini dell'ingresso, un tedesco gli ha dato un calcio, facendolo volare a terra. Sai, lì usava così. Solo che quella volta, nella caduta, a Salvatore scappò di tasca una patata. E così il suo furto fu scoperto". Nel Lager spesso si era messi a morte per molto meno. Ma l'ora di Salvatore evidentemente non era ancora giunta. La punizione però non tardò ad arrivare. Giovanni la descrive così: "Gli diedero le solite 25 bastonate, e lo spedirono a lavorare al crematorio". Una punizione tremenda che gli fu inflitta a causa della sua generosità. Salvatore pagò con quelle bastonate e con il trasferimento in una squadra della morte la sua disponibilità ad aiutare il suo compaesano e il suo amico, fuori delle cucine. Salvatore affrontò anche questa prova, come una delle tante previste dalla disumana logica del Lager, deciso a uscirne vivo a tutti i costi. Usciva la mattina presto dalla baracca, e non tornava prima di sera. Ma non faceva parola con nessuno del suo lavoro. Così, per ben due anni, caso più unico che raro in un campo nel quale era consuetudine dei nazisti liquidare ogni 6 mesi al massimo le squadre dei forni. "Gliel'ho chiesto anch'io a Salvatore: come hai fatto a salvarti? E lui mi ha detto che lo salvò un italiano, capo blocco, un tal Martini. Allora questo Martini aveva 40, 45 anni. Se si è salvato, adesso è morto di certo. Ormai siamo rimasti davvero in pochi". |