E' la tragedia che il mondo non ha voluto vedere

Dario Venegoni

La sede di Médecins Sans Frontières, a Parigi, è in una palazzina modernissima a due passi dalla piazza della Bastiglia. L'organizzazione, insignita qualche anno fa del premio Nobel per la pace come riconoscimento della sua attività, porta il suo aiuto umanitario alle popolazioni di tutti i continenti nelle condizioni più difficili, alle vittime "delle catastrofi di origine naturale o dovute all'uomo, o in conseguenza di guerre, senza alcuna discriminazione di razza, religione, filosofia o politica", come prescrive lo statuto.
Ho incontrato lì alcuni dei responsabili dell'attività della organizzazione in Bosnia, e da loro ho ottenuto i documenti che pubblichiamo in sintesi. Si tratta di documenti inediti in Italia: interviste e testimonianze raccolte in particolare tra un gruppo di rifugiati provenienti dalla Bosnia musulmana, vittime della cosiddetta "pulizia etnica" e ora ospitati in diversi centri di raccolta in Francia.
Pierre Salignon, giurista, responsabile del progetto di assistenza, ha tenuto a confermare che Médecins Sans Frontières è ben conscia che purtroppo gli orrori della "pulizia etnica" non sono patrimonio esclusivo di una parte sola. Profughi serbi o croati, provenienti da altre province della Bosnia Erzegovina potrebbero purtroppo raccontare storie non molto diverse da queste. Allo stesso modo l'organizzazione non ha voluto per ora prendere posizione ufficialmente sulla denuncia sollevata da più parti contro i dirigenti della Serbia, accusati di crimini contro l'umanità: "Ci sarà un processo internazionale" ha aggiunto Pierre Salignon, "sarà quella la sede per una sentenza di questo genere. Noi, come sempre, ci occupiamo delle vittime, di qualunque parte siano".
A quasi 50 anni dalla fine della seconda guerra mondiale la testimonianza dei profughi della Bosnia è semplicemente agghiacciante. Il loro è un racconto di inaudite violenze, di torture, di innumerevoli esecuzioni sommarie. Non saremo certo noi a confondere i campi di sterminio nazisti con qualsiasi altra forma di sopraffazionte. Ma certo i trasporti sui carri bestiame, la costituzione di campi di raccolta contornati dal filo spinato, sorvegliati dalle torrette di guardia, la sistematica violazione dei più elementari principi di dignità umana evocano per tanti di noi immagini e ricordi che vorremmo cancellati dal progresso, dalla tolleranza, dalla civiltà dell'uomo. E invece queste testimonianze sono lì a ricordarci che la barbarie è dietro l'angolo, letteralmente: che migliaia di uomini e donne, di vecchi e di bambini sono stati deportati solo l'anno scorso, solo qualche mese fa, a poche centinaia di chilometri da casa nostra.
Cosa facevamo noi il 26 maggio dell'anno scorso, giorno della caduta di Kozarac? A quali argomenti si dedicavano le prime pagine dei nostri giornali il 9 giugno, giorno della partenza dei carri bestiame carichi di deportati, molti dei quali moriranno durante il trasporto? A quali memo-rabili tappe era giunto il nostro solito dibattito estivo il 24 luglio dello scorso anno, quando 300 detenuti nella famigerata "camera numero 3" del Lager di Keraterm vennero ammazzati come cani tra le risa di scherno dei loro aguzzini? Emerge da queste drammatiche testimonianze anche la denuncia della disattenzione, della caduta della solidarietà dell'Europa, anche della sua parte migliore, tutta presa con i conti della propria crisi interna e dimentica dei drammi del vicino. Per chi come me fa dell'informazione la propria professione il confronto di queste date e di queste testimonianze con le prime pagine dei nostri giornali di allora è francamente sconfortante.
Per un giornale come questo, voce di una associazione che ha fatto della memoria della barbarie nazifascista la propria ragion d'essere, pubblicare questi testi significa adempiere a un dovere di testimonianza e di denuncia. "Mai più!" avevano giurato i deportati di tutte le nazionalità alla liberazione dei Lager. E invece...